Simone Di Benedetto due volte in trio
Due nuovi album freschi di uscita per Simone Di Benedetto, contrabbassista modenese (classe 1989) che lo scorso anno ci ha positivamente colpito con Depth Sounding: un disco per solo contrabbasso apprezzato in quanto prova di maturità, in cui una formazione grossomodo “classica”, che viene dagli studi accademici e dalle esperienze in orchestre ed ensemble, convive con un’attitudine devota all’improvvisazione. E proprio di improvvisazione non necessariamente radicale trattano Kinetic e Timewise, i due nuovi lavori editi dalla italo-berlinese Aut Records. In entrambi i casi si tratta di un trio: il primo condiviso con il clarinettista Alberto Collodel e il trombettista Gabriele Mitelli, il secondo, a nome Zarkan, con Marco Colonna (anche lui ai clarinetti) e Ivan Liuzzo (percussioni).
Quella con Collodel è in realtà una collaborazione che possiamo definire di lungo corso, dal momento che Kinetic è il secondo capitolo di un discorso iniziato circa tre anni fa a nome DST, quando i due pubblicavano Il Sistema Periodico, un lavoro che nel titolo (e anche nei singoli brani) è un chiaro omaggio all’omonima pseudo-autobiografia di Primo Levi. Con Gabriele Mitelli ora in gioco (alla tromba, ma gli sparuti interventi al sintetizzatore sono di sua mano), Kinetic pone ancor più in rilievo il lato timbrico dell’improvvisazione libera, esplorato democraticamente in otto diverse manifestazioni sempre piuttosto spontanee, in quello che sembra essere un procedere a tentoni, un girovagare all’apparenza randomico. Sono brani eseguiti all’insegna di un certo minimalismo di base, oserei dire primitivo, in cui tensione e dramma restano opportunamente dietro l’angolo, permettendo ai tre di interloquire sui bordi di una giocosità che spesso diverte. Nondimeno, dopo numerosi ascolti, non ho ancora capito quanto sia un bene questo incessante vagare senza meta che caratterizza l’intero ascolto. Forse, se il disco fosse meno lungo, non proverei alcuna sensazione di noia e scriverei unicamente del coraggio di questi tre musicisti, bravissimi quando si tratta di smantellare canoni e di perdersi nell’ignoto evitando le strade maestre in favore di quelle secondarie, tanto impervie quanto affascinanti.
Va detto che la sensazione di vaghezza – un orbitare senza equilibrio attorno a un nucleo appena palpabile – è ben presente anche in Timewise. Si direbbe che nelle dodici tracce che lo compongono (da intendere come un continuum, trattandosi di un live) venga addirittura portata all’estremo. Nelle fasi iniziali dei 38 minuti del disco, registrato al MADXI di Latina nel gennaio 2019, pare quasi che il trio sia nel bel mezzo di una sessione di prove, o che stia accordando gli strumenti: presto osserviamo che si tratta di un dialogo molto ricco di accenti, pause e cambi di registro. La comunicazione fra i tre è genuina e bilanciata; per buona parte i suoni in arrivo dalle diverse fonti si sfiorano l’un l’altro, anche quando emergono parvenze di strutture formali. E infatti, apprendiamo dal comunicato, Zarkan nasce proprio dal desiderio di combinare composizione e improvvisazione, seguendo quelle tracce che nel corso del Novecento hanno portato i due mondi a toccarsi più volte e partendo dal rapporto che ambedue instaurano con la nozione di tempo. Dunque non sorprende che, a partire dal “Preludio”, quattro dei dodici brani presenti siano rispettivamente dei frammenti di Gérard Grisey (sua fu l’idea di applicare una divisione nel concetto di “tempo”, identificandone uno degli insetti, uno degli uomini e uno delle balene), di Béla Bartók (“Cyclic”), di Luigi Nono (“Pause & Silence”) e di György Ligeti (“Suspension”).
I restanti otto brani sono composizioni scritte da Di Benedetto, dove sempre è in gioco questo confronto a tre, questo dialogo in cui ognuno prende parola con moderazione, in punta di piedi, restando nella propria nicchia; come il Palomar di Calvino, quando “ha preso l’abitudine di mordersi la lingua tre volte prima di fare qualsiasi affermazione”. Forse è proprio il clima riflessivo, la pacatezza che sottende ogni intervento, ciò che fa di Timewise l’ambiente ideale per il carattere del contrabbasso di Simone Di Benedetto, che mi piace definire ponderato e intelligente. Ancora intento a scandagliare le profondità che del succitato Depth Sounding sono il background, questa volta il nostro fa da contraltare al clarinetto di Colonna, più estroverso e sempre molto raffinato. Nel mentre le percussioni di Liuzzo restano sullo sfondo, a impreziosire in modo misurato. Ad eccezione di un passaggio più intenso e fremebondo (non a caso posto, o meglio, occorso poco prima del finale), solitamente è una pensosità assorta quella che avvolge Timewise, stemperata nelle penombre che lo rendono un lavoro non molto accessibile, ma capace di dare diverse soddisfazioni a chi volesse porgere un ascolto profondo.
Due bei dischi (a me è piaciuto specialmente Timewise, l’avrete capito) che, tra le altre cose, stando a quanto mi è capitato di pensare ultimamente, solidificano la possibilità di un nuovo comparto di contrabbassisti italiani che, coincidenza (o forse no), sono uniti da almeno un paio di punti in comune: la giovane età ovviamente e, soprattutto, la fusione che ognuno di essi esercita tra compo-improvvisazione jazz e musica classica contemporanea. E allora magari partite da Simone Di Benedetto e poi ascoltate Andrea Grossi e Andrea Verniani, per citare due validi nomi che su queste pagine abbiamo già trattato. Di carne sul fuoco ce n’è.