Simone Basso, voce + corpo = performance
O’Er The Land Of The Freaks è un album piuttosto singolare: al suo interno troverete molte influenze, dagli anni Ottanta più creativi alla contemporaneità più avvezza alla coscienza critica, soprattutto una genuina predisposizione a sperimentare con gli stili, a renderli sempre attuali. Stiamo parlando di un lavoro per pochi, forse, ma che riesce a farsi notare tra i molti in circolazione. Simone Basso, in arte Enomisossab, ci spiega meglio un po’ di cose in proposito. Photo credits: mr.minio|photo.
Per capire chi sei oggi bisogna necessariamente fare qualche passo indietro. Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta eri con Fausto Balbo prima nei Jesus Went To Jerusalem e poi nei Der Tod. Quelle esperienze si concludono e ti metti in proprio.
Simone Basso: Si comincia per un’esigenza che descrivere non saprei. Ci siamo beccati l’ultimo periodo pionieristico (di espansione) della musica come espressione generazionale. Pochi mezzi, tantissima circolazione di idee curiose. Rimango sempre là, dopo aver fatto il giro del mondo in bici: la musica è la colonna sonora della vita, mica di uno spot pubblicitario. Tecnicamente, Enomisossab era già nelle ultime cose dei Der Tod. La voce più il corpo fanno la performance. La voce è anche uno strumento musicale, ma va oltre quella funzione.
Come nasce il sodalizio con Fabrizio Naniz Barale? Lui viene da esperienze piuttosto diverse dalle tue, in fondo… era negli Yo Yo Mundi. Tra l’altro, se ricordo bene, lui ha registrato dischi di artisti molto popolari.
Siamo coetanei e ci siamo sfiorati per anni. Poi, durante la progettazione di Kykeon, decisi di provare il suo studio di registrazione per alcune tracce (non solo vocali). Non ci volle molto a capire l’empatia che si stabilì. “Endless Summer”, per esempio, venne fuori in due ore, improvvisando su due righe di testo fonetico, che poi diceva tutto su ciò che vivevo in quel momento… Quando si è trattato di cominciare O’Er The Land Of The Freaks ho pensato di nuovo a lui e a quel luogo, ci cantavo benissimo. Alla terza jam, messo assieme il terzo brano, era naturale coinvolgerlo al cento per cento. A me serviva per generare qualcosa di più (apparentemente) pop, a Fabrizio per approfondire il suo lato da produttore e arrangiatore. L’aspetto più particolare della lavorazione? Ci siamo divertiti come dei bambini al parco giochi.
Devo fare per forza due nomi quando ascolto la tua voce: Demetrio Stratos e Scott Walker. Cosa rappresentano per te i loro percorsi artistici, e dimmi se sto vaneggiando nell’accostare il timbro della tua voce e la ricerca che c’è dietro alle loro…
Ci potrebbe stare, anche se, nel caso illustrassi i miei studi e le mie influenze, scandalizzerei molti. Stratos è un riferimento di chiunque affronti il tema della vocalità: per dirla con altri, notevolissimi, un centro di gravità permanente. Poi, l’ennesimo segno dei tempi, digitali, con un’ermeneutica rivedibile… potrei raccontarti che il mio yodel spezzato, come quello del cantante degli Area, nacque con Leon Thomas che cantava con Pharoah Sanders. O che la voce suonata più riuscita in Italia è quella di un attore: Carmelo Bene, un fonatore impazzito che andò oltre significato e significante della parola. Ecco, quell’idea è una delle basi della mia ricerca e l’ultimo disco ne approfondisce i concetti. Di Walker amavo più la continua, incessante, tensione lirica. Il mio vocione? Boh. Mi vengono in mente Arthur Brown, Billy Mackenzie. Poi su certe timbriche, riascoltandomi, sento le mie vecchie passioni: Milton Nascimento, qualche cantante hard and heavy, gli afroamericani… Per finirla qui, su un solo brano dell’album, mentre mettevamo giù “Uh, Your Nose Is Bleeding”, pensavo ad avere riferimento: un po’ Prince e soprattutto il Freddie Mercury falsettista del controverso Hot Space.
Cosa ascoltavi da ragazzino e cosa ascolti ancora oggi?
Sono cresciuto negli anni Settanta e primi Ottanta, dunque con un hi-fi della famiglia a disposizione. Una formazione novecentesca, solida, non liquida. C’erano le orchestrine lounge, Mina e Sinatra ma pure Bach, Beethoven e Stravinskij, e Deodato, gli Emerson, Lake And Palmer e Frank Zappa. Ho sviluppato un gusto onnivoro, (de)genere. Dovessi raccontarti dei miei gusti legati al rock, o quel che ne rimaneva, lo ripeto: stavo con quelli sporchi e cattivi. Allora black music, hard and heavy e la cultura industriale. Però gli orizzonti erano sempre più in là: ricordo che una volta, da un bel negozio di dischi, me ne uscii con Secrets Of The Beehive di David Sylvian e Under The Sign Of The Black Mark dei Bathory. Il 2019? Se si cerca, c’è un’eccellente musica contemporanea: oggi, per esempio, ascoltavo un giovane francese, Adrien Trybucki. Il vero problema è la musica popolare, quella di successo, oscena. Esistono atolli, sempre i soliti, in particolar modo i sudamericani. Cito delle donne: una vecchia icona, Elza Soares, Juana Molina, Xenia, Ava Rocha (Trança è onirico…). Ci sono delle belle cose in giro, underground, anche italiane, che esplorano, ma la domanda è “quanto rimarranno?”, comprese le mie.
Anni di frequentazione di ambienti underground ti avranno certamente fatto venire in mente delle domande, una te la suggerisco io. Se due/tre decenni fa uno stampava un cd e vendeva 1000 copie guadagnava un tot, certamente poco. Ora i cd quasi non si fanno più, o comunque escono in tirature molto limitate, e forse si riesce anche a vendere qualche streaming con le piattaforme digitali. Chi ha vinto?
Ha vinto il nuovo sistema, il Mondo Sul Filo. Che solo gli ingenui, ieri, e i fessi e i criminali, oggidì, possono credere fosse un’oasi di libertà. La musica è stata il paziente zero del bordone digitale. Una rivoluzione neuro-linguistica senza precedenti, in pochissimi anni: roba che il Vecchio e il Nuovo Testamento, per diffondere e imporre il loro pensiero, ci impiegarono secoli. La scena indipendente è stata ammazzata, resa inoffensiva, da queste dinamiche. Quelli che invece fanno branding, che costruiscono un marchio, andranno avanti benissimo. Il quantitativo uccide il qualitativo. È il motivo che ci distanzia da quella che fu la musica popolare dello scorso secolo: senza un’industria discografica forte, non arriva nessuna controcultura a mo’ di reazione, e nessun investimento rischioso. Il prodotto, come accennato prima, diventa altro: il video, il film, la serie Netflix, lo spot (che in inglese significa anche macchia…), la suoneria… La musica in sé diventa rumore bianco. Sottolineo anche una retroazione inquietante nella cosiddetta nicchia (che dovrebbe sperimentare). L’esposizione continua, il dover comparire e condividere di fronte (?) a un pubblico (ristretto) di appassionati, genera “profeti dell’ovvio”. Manca sempre più uno scarto temporale, il presente continuo, ossessivo, ostacola la creatività.
Mi dai una tua definizione di “sperimentale”? Cosa significa per te sperimentare?
Come Luigi Nono: “avere nostalgia del futuro.”
Quanto hanno influito gli ascolti giovanili su tanti brani dell’ultimo album? Io ci sento i Talking Heads, lo Scott Walker e il David Bowie più “obliqui”. Allo stesso tempo c’è l’urgenza di raccontare il presente, passando per i social network e per i logo analizzati da Naomi Klein.
Quando, con Fabrizio, si decisero le sonorità, si scelse una specie di universo parallelo. Patrick Bateman, il cut-up, le citazioni letterarie, imponevano un esoscheletro che richiamasse gli anni Ottanta. Ma le strutture canzonettare erano solo così all’apparenza. La realtà è che si tratta di un disco hip-hop senza le menate dell’hip-hop. Ci sono i bassi ovunque, certe ritmiche, il groove, ma tutto ruota attorno a un immaginario febbrile, intellettuale (sigh), di continui riferimenti, e con una voce – con più voci dentro – che suona le parole. E pure l’italiano usato, nel contesto di una canzone, è piuttosto inconsueto, non è televisivo o social. Nessun parolaio stonato, una voce polmonare, quasi lirica, e tantissima sottrazione, nel mix è rimasto l’indispensabile. Quando lo chiudevamo, Blackstar di David Bowie, che ha un taglio sonoro anche fin troppo duro (e compresso), era nelle discussioni. Siamo tutti figli di Bowie, nel bene e nel male. I Talking Heads piacciono molto a Barale. Se devo spendere un nome, vado con la compagnia che più di tutte, per me, ha ribaltato il giochino pop, quelli del P-Funk, i clintoniani. Ecco, torniamo alla musica pop di allora: c’erano i Funkadelic, i Kraftwerk, Bowie, Stevie Wonder, Fela, Milton… E anche da noi non si scherzava.
Cosa ti aspetti da un disco come O’Er The Land Of The Freaks? E quali sono i feedback che sei riuscito a raccogliere negli anni come Enomisossab?
Il disco, nell’età del simulacro, è un messaggio nella bottiglia o poco più. O’Er The Land Of The Freaks sta andando bene ma c’è la consapevolezza dell’istmo, dell’isoletta, quindi del binario morto, che è lo chassis di quell’enorme discarica cibernetica che è la Rete. Negli ultimi due anni ho fatto a meno delle performance, più che altro per la sparizione dei luoghi adatti e la consapevolezza che la musica – ad libitum – sia sentita sempre meno in quanto necessità primaria, al pari dell’aria che respiriamo. Stanno spuntando proposte per esibizioni in posti particolari, e c’è la curiosità di capire quanto, in quella dimensione, si possa ancora tirare la corda, annientando certe barriere. Chissà.
La tua resta una proposta di nicchia, di “studio” in un certo senso, ma anche di lotta contro le banalità musicali che però ci sono sempre state e sempre ci saranno. Quali strategie adotti, se ne hai… contro queste derive?
Le “strategie oblique” sono un film per le orecchie che duri trentacinque minuti, appunto O’Er The Land Of The Freaks, o una ricerca vocale che connetta sempre più temi e suggestioni. Tenendo conto che il lavoro originale è qualcosa che torna alle origini, ma da strade inedite. Siamo carbonari ed è meglio così: liberi tutti, e che ci siano idee e voglia. Il prossimo Enomisossab partirà da un tema, essenziale e vitale, che è stato tolto da O’Er The Land Of The Freaks per non miniaturizzarlo. L’alfabeto per descriverlo accompagnerà la voce nel viaggio.