SIMONA GRETCHEN
L’esordio è stato uno dei dischi più importanti usciti sul finire del 2009. L’impegno dei concerti, di una casa discografica, di una “carriera” non sempre facile da metabolizzare. È da poco uscito il nuovo (ultimo?) disco di Simona Darchini, di seguito l’intervista.
Chiacchierando altrove, mi hai detto che ora tieni Simona Gretchen “ben stretta al guinzaglio”. Considerando l’importanza dei temi del nuovo disco, cosa è successo tra Gretchen Pensa Troppo Forte e anche tra Simona e Simona? Carta bianca per raccontarci tutto.
Diciamo pure che è al guinzaglio solo perché deve ancora fare qualche concerto, se no sarebbe già, definitivamente, morta. Fra Gretchen Pensa Troppo Forte e ora è passato un uragano (ma quello si sente senza bisogno che lo dica io, suppongo) e fra Simona e Simona c’è stata una bella guerra (poco) fredda. Tradotto in parole povere, il 2012 è stato un anno altamente destabilizzante, da qualsiasi punto di vista. Scherzi a parte, ma non troppo, ancora prima di cominciare a lavorare a Post-Krieg sapevo sarebbe stato l’ultimo disco. In effetti poi è andata com’è andata: non ho mai fatto tanta fatica a fare qualcosa e non sono mai stata tanto fiera di quel qualcosa, una volta finito.
Come ha preso vita la direzione musicale di Post-Krieg?
Non ne ho idea. L’avevo tutto in testa e non c’era neppure un provino. Sono arrivata in studio incrociando le dita. A volte mi sono chiesta cosa stessi facendo, poi mi accorgevo che non mi aiutava per niente e continuavo a registrare evitando di farmi qualsiasi domanda.
Ci racconti, allora, com’è stato realizzato Post-Krieg?
Ho creato uno scheletro dei brani con linee di piano (per la versione definitiva ho invitato in studio Silvia Valtieri, ora con me anche dal vivo) e basso distorti. Su queste linee ho costruito quelle vocali e Paolo Mongardi le parti di batteria. Lorenzo Montanà, intanto, lavorava su parti di chitarra e altri arrangiamenti. Poi hanno registrato i loro interventi Nicola Manzan (violini su “Enoch” e “Everted – part II”), Paolo Raineri (tromba su “Everted – part III”) e Sabina Spazzoli, sua la voce su “In” ed “Everted (part III)”. A seguire, la fase relativa al mixaggio, piuttosto veloce. Lorenzo ha curato, in generale, la produzione artistica, ed è stato presente in tutte le fasi della lavorazione dell’album, master escluso, che è di Stefano Cappelli.
Lo so che il track by track è odiato, ma possiamo provarci? È che poi in effetti, Post-Krieg non riesco proprio a vederlo come “diviso” in pezzi, considerando le tante tematiche che porta con sé. “Everted” alla fine è una sola “canzone”, ma in tre parti.
Verissimo. L’idea, riguardo a “Everted”, era di creare un’unica suite tripartita, anche se tutto l’album nasce come concept. Ci sono due binari fondamentali su cui corre, si potrebbe dire, in parallelo: la “guerra dei princìpi” e l’idea di “fine”. “Everted” è semplicemente il lato B del vinile (su cui la struttura del disco è plasmata), quello in cui, in pratica, si smette di scherzare e si scende dritti all’Inferno. Qualcuno ha detto che proprio questa seconda parte sarebbe la più ispirata del disco. Il fatto è che sul lato A ci sono le premesse che permettono a “Everted” di non manifestarsi come un trionfo di nonsense. “Hydrophobia”, più di ogni altro brano, fra l’altro, contiene l’essenza (a parole, soprattutto) di quello che l’album intero dice sulla “guerra dei princìpi”. Il lato B si concentra maggiormente sul concetto di “fine”, invece, ed ha il suo culmine nella terza sezione, dove io immagino una sorta di collasso… di generi musicali, di senso, di significato, di coscienza.
Come mai la scelta di “avvalerti” di Lorenzo Montanà, Paolo Raineri, Nicola Manzan e Paolo Mongardi?
Un’altra di quelle cose che ho dato quasi per scontate. Volevo “loro” e grazie al cielo hanno detto sì. Con Lorenzo, Nicola e Paolo avevo già collaborato, fra l’altro e stavolta potevo offrire loro qualcosa di più interessante su cui intervenire, rispetto alle situazioni precedenti. Hanno fatto tutti un ottimo lavoro. Ne ero convinta mentre eravamo in studio e ne sono ancora più convinta oggi.
Le influenze letterarie che si agitano tra le note?
Artaud e Jung su tutti. Fra le righe compaiono anche James Ellroy, Chuck Palahniuk, Amelia Rosselli e Luciano Nanni. Ma cercare citazioni vere e proprie è tempo sprecato. Questi autori mi interessavano ognuno per una questione biografica o metodologica diversa, più ancora che per argomenti affrontati. Così della Rosselli non uso una delle tante immagini surreali che riporterebbero qualsiasi suo cultore alla sua poesia, ma il “lapsus”. E di Ellroy non riprendo un passaggio, ma la commistione di autobiografia e romanzo che la sua (forse mai esaurita) elaborazione del lutto ha creato. Di “Rabbia” di Palahniuk mi interessava il fatto che il protagonista riuscisse a scardinare i suoi limiti al punto da vincere lo spazio-tempo, passando una vita intera (anzi tre) cercando e auto-fabbricandosi antidoti (potenzialmente letali) nei confronti della realtà. Oserei dire che tutto, in Post-Krieg, è molto complesso (ma forse sarebbe meglio dire “stratificato”) di quanto sembri. Non lo dico per invogliare nessuno a cercarvi nulla, lo dico perché se musica e testi sono frutto di tre o quattro mesi, la stratificazione di cui sopra, compresi tutti gli aspetti affini alla sfera “subliminale” dei contenuti, sono frutto di altri sei o sette mesi a parte. A me lavorarci continuativamente per una buona fetta del 2012 ha fatto malissimo, lo ammetto. Non passerei mai Post-Krieg a qualcuno dicendogli: “È un ascolto piacevole”. Non lo è, né è fatto per esserlo. Parla di una lotta interna fra tendenze di natura opposta, che consuma fino all’osso chi decide di guardarci dentro. Quanti vorrebbero veramente vederla? E quanti invece finirebbero per trovarci altro o fingere di trovarcelo? È incredibile quello che certe persone siano riuscite a proiettare sull’album, ma questa dinamica è parte del gioco. Post-Krieg, come ogni disco, non può appartenere al suo autore.
Chi ha (e come ha) realizzato l’artwork e in che modo si collega al disco?
Eeviac e (Silvia) Karamazov hanno curato l’artwork di cd e vinile, che in comune hanno poco più che la copertina. Luca e Silvia hanno sintetizzato la “guerra dei princìpi” in un pube femminile ornato da piume di pavone. Il risultato è un corpo aggraziato, ma potenzialmente mostruoso, su cui aleggia, su ogni altra, l’aspirazione all’ermafroditismo. All’interno apparati interni maschili e femminili (irriconoscibili) si fondono fra loro, dando vita a motivi ornamentali. Ci sarebbe altro da dire, ma sintetizzare in cinque righe le conversazioni fra me e Eeviac sull’argomento è decisamente impossibile. Aprite il cd o il vinile, capirete perché.
Come hai organizzato il live?
Con Silvia Valtieri, Luca Baldini (Kisses From Mars), Cristian Naldi (FulkAnelli) e Andrea Grillini (Luther Blisset). Ci segue anche Paolo Cola, al mixer. È un live-set piuttosto fisico, con attitudine intermedia fra kraut e punk. Di cantautorato non c’è traccia, la voce stessa è l’ultima componente in questa nuova dimensione.
Ci parli della Blinde Proteus, magari anticipandoci qualcosa?
La Blinde Proteus è nata nel 2012, in primavera, più o meno un anno fa. Oltre a Post-Krieg stesso, ha pubblicato dischi/ep di Elettrofandango, Fuzz Orchestra, Herba Mate, FulkAnelli, Ornaments. Il 20 aprile esce lo split “Dicotomia” tra Chambers e The Death Of Anna Karina, su 12 pollici, a maggio il nuovo disco dei Lleroy, Soma, mentre in autunno sarà la volta del primo disco dei Lume, nuovo progetto di Franz Valente (Teatro Degli Orrori) e Anna Carazzai (Love In Elevator), che uscirà in seguito anche negli USA. Il 4 maggio, fra l’altro, festeggeremo il primo anno di attività con un triplo concerto: Fuzz Orchestra/Simona Gretchen/Lleroy, presso Zona Roveri, a Bologna.
E da Simona, cosa dobbiamo aspettarci in futuro?
Bella domanda, neanch’io so cosa aspettarmi da me. Non è detto continui a far musica. Adesso devo guardarmi intorno, magari fuori dal sempre più claustrofobico contesto italiano. Non ho programmi né progetti di nessun tipo, il presupposto fondamentale per cui il mio cervello produca qualcosa di buono. E non, appunto, necessariamente in ambito musicale.