Simina Oprescu e Ilios: il suono e i racconti della materia
Immersa per secoli nel contesto mistico-religioso di chiese e culti di tutto il mondo, la campana è uno strumento musicale dal suono straordinariamente evocativo, capace di attrarre artisti e ricercatori che si muovono in aree musicali radicali e sperimentali, intenzionati a svelare modi inediti per ascoltare la vibrazione prodotta da questo idiofono a percussione diretta.
Sound Of Matter, opera prima della ricercatrice e sound artist rumena Simina Oprescu, è il risultato della manipolazione del suono di quindici diverse campane fuse tra il XV e il XIX secolo.
Due lunghi flussi (consapevolmente registrati in mono), dai molteplici strati lievemente sfasati in altezza e velocità che lentamente si sovrappongono e si intersecano, generando suggestioni microtonali, frizioni pseudo-ritmiche e atmosfere in estatica sospensione. La Oprescu non si limita a comporre utilizzando parametri estetici personali, ma si impegna in una ricerca rigorosa: prova ne è l’astrusa equazione f = K1t/d^2√E/s(1-m^2), estrapolata incrociando i dati relativi alla forma, al materiale e alla densità delle numerose campane studiate al fine di riprodurne le peculiarità armoniche con Max/MSP.
L’entusiasmo della Oprescu nel voler indagare con metodo scientifico il suono archetipale delle campane desta sincera ammirazione: per una volta, possiamo parlare a pieni termini di “ricerca sonora”, direi a livello accademico. A tutto questo apparato intellettuale non corrisponde – ahimè – l’elaborato sonoro terminale. Se ascoltato ignorando del tutto la ricerca a monte, l’impressione che se ne ricava è piuttosto neutra. Un disco pregevole, in alcuni passaggi anche interessante, ma che fatica a differenziarsi dai mille altri di drone-ambient già ascoltati. Non è detto però che la Oprescu non possa sorprenderci in futuro, quando troverà il baricentro perfetto tra rigore scientifico e intuizione compositiva.
Dall’Est europeo ci spostiamo ad Atene, per un’altra produzione che mette al centro il medesimo strumento, ma con un approccio decisamente meno analitico ed estremamente più materico.
The Tale Of The Rüetschi Foundry è un bizzarro album firmato dal greco Ilios (uno dei due Mohammad), costruito manipolando flussi audio registrati in presa diretta durante il processo di creazione delle campane nella fucina Rüetschi di Aarau. Durante l’Alto Medioevo erano i monaci i soli a possedere le conoscenze necessarie a progettare e fabbricare le campane, conoscenze che gradualmente passarono agli artigiani che ancora oggi forgiano questi strumenti.
Una prima metà del disco è pervasa da apocalittico astrattismo (le telluriche ossessioni post-industriali di “Atropos The Third”, i riverberi abissali di “Harono”). Da “Fandejo Ruetschi” in poi la dimensione umana si fa più tangibile: si odono le voci degli artigiani, i canali di scarico dell’acqua, le colate di metallo fuso. Nelle conclusive “Kalag” e soprattutto in “Ninuno” (che prevede anche una performance vocale) compare a sorpresa un sintetizzatore (sinceramente un po’ fuori contesto) i cui arpeggi deviano l’atmosfera generale verso un minimalismo elettronico di maniera che intorpidisce il tenore brutale e allucinato ascoltato precedentemente, decisamente più riuscito.