SIAVASH AMINI, TAR

Right now, being underground is not as much a limitation as it is a decision to disconnect from the mainstream

fonte: A Guide to Iran’s Electronic Underground

Su Siavash Amini si potrebbero aprire molte discussioni. La prima riguarderebbe l’esistenza di una scena musicale underground in Iran, come ha fatto Bandcamp. Ho già avuto a che fare con lui grazie a Umor Rex, che è un’etichetta messicana: anche l’abbattimento delle distanze tra persone potrebbe essere un tema da ripescare, tanto per ricordarci – in tempi di fake news – la bellezza di internet.  Avevo già incontrato altri sound artist persiani come Porya Hatami e Mehdi Saleh (Alphaxone): curiosamente tutti loro hanno a che fare con sonorità “ambient”, ma servirebbero più dati per trarre delle conclusioni. Altro punto in cui scavare è l’estetica: i lavori di Siavash non possiedono tratti “etnici” che lascino intuire la zona geografica dalla quale proviene, una cosa strana perché se etichette “occidentali” si spingono in Asia o in Africa è anche per cercare caratteristiche “locali” nei musicisti, che qui non ci sono, senza dimenticare che può pure essere che siano questi ultimi, in perfetta autonomia, a cercare forme di sincretismo, attingendo dunque alle loro tradizioni, ma non pare questo il caso.

È di questi giorni la notizia che, sempre su Umor Rex, uscirà il nuovo album di Irisarri, nel quale Amini ha un ruolo in due tracce. Non è la prima volta che lui ha a fianco nomi importanti: in questo TAR il mastering è nuovamente di Lawrence English (già all’opera su precedenti lavori di Siavash, come Subsiding, Familial Rot, Topology Of Figments…). Ciò accade per un motivo molto banale: è bravo e dunque attira gente brava. Per Familial Rot s’era usata la definizione di dark ambient, mentre in TAR c’è un tentativo di svincolarsi da generi troppo restrittivi. Il tono, per quanto bilanciato con parti eteree, è compostamente tragico, del resto l’etichetta scrive che questo è un disco che rappresenta una sofferenza psicologica individuale e anche non individuale, come se esistesse anche una sorta di dolente inconscio collettivo. I titoli stessi suggeriscono una condizione di difficoltà e di soffocamento: “fiumi di catrame”, “faccia sulla sabbia”, “la polvere che respiriamo” (qualcuno ha voluto trovarci pure riferimenti all’ecologia, ma non so se sono d’accordo). L’album è composto da 4 episodi per un totale di 40 minuti: non conosco il processo creativo, ma presumibilmente chitarre e synth sono passati attraverso il software, così come (almeno a livello di assemblaggio finale), violino e contrabbasso elettrico, suonati da altri due musicisti iraniani, Nima Aghiani e Pouya Pour-Amin, che hanno aderito all’impostazione atmosferica e destrutturata di Amini. L’ascolto non è mai noioso, siamo di fronte a un album mutevole e bruciante, talvolta quasi impalpabile, spesso potente e invasivo (in termini di volume); legato alla musica classica, ma anche ai bordoni “emotivi” devastanti degli ultimi English e Irisarri.

Impossibile che non piaccia a chiunque segua gli artisti, i generi e le etichette tirati in ballo in questa recensione. Sentiremo parlare ancora di Siavash.