SHORES OF NULL, The Loss Of Beauty
Non troppo tempo fa abbiamo pubblicato un longform sui protagonisti di questo pezzo, più intervista. Il motivo, all’epoca (ma anche oggi), per me era chiaro: documentare, far capire alle altre band di casa nostra come si fa ad andare in giro a suonare, a promuovere un disco, a farsi ascoltare, perché – piacciano o non piacciano – gli Shores Of Null sono bravi e riescono a trovarsi in posti dove generalmente non c’è nessun altro italiano, fatta eccezione per i Messa (ricordate gruppi metal italiani a cui la Svart ha pubblicato un Live At Roadburn? Io no). Per capirci: mentre scrivo, loro si stanno preparando a un tour con i loro idoli Swallow The Sun e con i Draconian, il gruppo che ascolterete quando il vostro lui/la vostra lei vi mollerà (se vi piacciono i Draconian è giusto che rimaniate soli, tutto si tiene). Nel nostro Paese ci sono musicisti – metal e non metal – più creativi e personali degli Shores Of Null, ma che non esistono quasi per nessuno. Per sapere perché, ripeto: leggete la nostra intervista. In sintesi: se non fai qualcosa per il metal, il metal non farà qualcosa per te.
The Loss Of Beauty è il quarto full length della band, il secondo su Spikerot, etichetta del cantante, dopo due su Candlelight. Il promo è arrivato a The New Noise da un PR canadese, e questo rivela un mondo. Ancora una volta siamo di fronte a un disco:
[ ] furbo
[ ] intelligente
Mettete voi la crocetta.
Registrato a Roma (Kick Recording Studio e Bloom Recording Studio) tra 2019 e 2020 insieme al precedente Beyond The Shores (On Death And Dying), col solito appoggio di Marco “Cinghio” Mastrobuono (sesto uomo della squadra), The Loss Of Beauty suona alla perfezione, tipo lo spot – virato a un blu da direttore della fotografia di Michael Mann – di una macchina che non possiamo permetterci, quello dopo il telegiornale, mandato nella speranza che qualche uomo in crisi di mezza età decida di pagare una finanziaria finché morte non li separi. Del resto anche gli Shores Of Null sono metal di mezza età: il PR di poco fa li consiglia ai fan di Amorphis, Enslaved e Paradise Lost, senza poi mentire troppo. Abbiamo malinconia, melodie, voce pulita, velleità prog, le intessiamo – manuale Cencelli sottobraccio – con qualche parte più chiaramente doom/gothic, qualche riff in tremolo epico che manco i Borknagar e non troppo malvagio, e un growl forse ancora migliorabile.
Facile?
Per niente.
Non riesce sempre nemmeno ai maestri nominati poco più su, uomini che – ormai nel secolo scorso – hanno salvato vite di adolescenti e che si producono ancora in più di qualche buon guizzo, oltre che una popolarità che consente tour e fa finire presto il merch. Non arriva dal niente un pezzo come “The Last Flower”, che tiene insieme così tante parti diverse facendo credere che sia tutto omogeneo, ad esempio. Allo stesso modo, non si scrive in un giorno “Destination Woe”: immediata, memorizzabile, eppure mascherata in modo tale che a nessuno venga da dire che è banale. Stesso discorso per “Nothing Left To Burn”, altro episodio ultralevigato che dopo mezzo secondo di melodia di chitarra ti dice che quanto a influenze la band non è mai scesa più a Sud della Danimarca. Quello che invece – come si capisce – a me non piace di questo materiale è che tutto va troppo secondo i piani. Comunque: dov’è la Century Media quando serve?