SHORES OF NULL, 5/6/2021
Roma, Traffic.
Dopo un anno e mezzo di pandemia, nel corso del quale gli eventi musicali sono stati posticipati più volte, avere la possibilità di scrivere un live report è qualcosa che mai avrei osato sperare: eppure eccoci qui.
Il 5 giugno 2021 si è tenuto al Traffic Club di Roma un live in acustico degli Shores Of Null, con Alex Invernoir (già frontman di Invernoir, Ars Onirica e Veil Of Conspiracy) come opening act.
Assistervi è stato per me surreale, ma ho buone ragioni di credere che fosse un sentire condiviso, a giudicare dall’atmosfera: raccolta, rilassata, ma al contempo intrisa di una certa incredulità.
Alex apre le danze con alcune cover di band particolarmente care agli adepti della musica triste e malinconica: voce e chitarra, e una bella dose di ironia. Scherza col pubblico, nel quale spicca la presenza di vari bambini, perché si sa: bisogna cominciare fin da piccoli con certe cose. Da “Far Away” degli Anathema, passando per “Teargas” e “Omerta” dei Katatonia, fino a vere e proprie chicche come “In The Woods” dei Ghost Brigade e “Firelights” degli Swallow The Sun, Alex percorre quella che scherzosamente definisce “la carrellata del dolore”, concludendo con qualcosa delle sue band, cioè l’inedito “Lost” degli Ars Onirica e “Cast Away” degli Invernoir. La semplicità della formula e la spontaneità dell’esecuzione ben si amalgamano con l’ottima scelta dei pezzi, noti al pubblico e ormai parte del repertorio di Alex da tempo immemore.
Dopo un set di circa mezz’ora, Alex lascia il palco agli Shores Of Null, che esordiscono con “Kings Of Null”, apertura del loro primo album. Proporre in acustico materiale nato in elettrico è sempre un atto di coraggio, solitamente frutto di una scelta e non, come forse in questo caso, di una condizione dettata dalle circostanze. Eppure l’enorme lavoro di riarrangiamento, quasi di riscrittura, mi fa credere fermamente che la resa in acustico, più che togliere la componente in elettrico, tenda piuttosto a dare una nuova forma ai brani senza sacrificare nulla. Un plauso alla band, quindi, per aver vinto questa scommessa. Il frontman, Davide Straccione, saluta il pubblico subito dopo “Kings Of Null”: “è incredibile tornare live anche se sotto questa forma, dopo tanto tempo”. Specifica che è trascorso un anno e mezzo dall’ultimo tour e ben sei anni dall’ultimo set acustico. Chiede la clemenza del pubblico, ma sappiamo bene che non sarà necessaria, date le premesse. Tocca a “The Heap Of Meaning”, che già era stata eseguita nel sopracitato set del 2015 e di cui, precisa Davide, esiste anche un video su YouTube. Pur non essendo, quindi, una novità, dal vivo è comunque un’altra storia: l’intensità emotiva che questi ragazzi sono in grado di incanalare e trasmettere è sempre notevole, al di là di una ormai consolidata competenza tecnica. Si prosegue con “Donau”, tratta dal secondo album: l’ho sempre ritenuta un po’ speciale, e non nascondo di aver temuto che un unplugged potesse smorzarne la potenza evocativa. Chiaramente mi sbagliavo: le parti di cantato più estremo presenti nel ritornello, per esempio, trasformate in uno spoken word che strizza l’occhio al miglior Peter Steele, mi rimarranno impresse come uno dei momenti più alti dell’intero concerto. La successiva canzone, “Night Will Come”, è stata sapientemente rimaneggiata in modo tale da mantenere il mood originale, ma in una veste nuova. Di suo, penso si presti molto per un set acustico, ma il guizzo creativo della band l’ha resa inaspettatamente diretta, asciutta, priva di fronzoli, specie nella ripetizione del titolo, quasi un mantra e una promessa. Con “Black Drapes For Tomorrow”, a seguire, vedo accentuarsi la vicinanza con l’interlocutore: i growl sono sostituiti da una nenia quasi parlata, e il contributo canoro dei due chitarristi, ormai uno standard nel sound della band, rende il momento ancora più intimo, quasi da farlo sembrare un contesto conviviale da falò di Ferragosto (in senso buono, sia chiaro). La solennità del brano, nella sua splendida pesantezza e nella drammaticità del testo, non viene tuttavia intaccata: è tutto molto intimo, e la band e il pubblico sembrano un tutt’uno, fautori e testimoni di ciò che l’arte è in grado di suscitare (mi si perdoni la retorica, ma penso che la sindrome di Stendhal riguardi anche la musica, a volte…).
Segue, come su disco, la strumentale “The Enemy Within”. Davide lascia temporaneamente il palco, e il dialogo tra le chitarre di Raffaele e Gabbo, assieme al basso di Matteo (un notevolissimo Warwick Alien acustico, a cinque corde e fretless, che non passa inosservato) crea un’alchimia potentissima. Ad assecondare ulteriormente il flow dell’album subentra poi “Carry On My Tiny Hope”, che vede Davide nuovamente sul palco. Si assiste a una vera e propria “trasfigurazione”: l’impatto in chiave acustica trasforma la pesantezza dei brani, nella forma e nel contenuto, in delle nuove entità sonore, in cui il nuovo arrangiamento non è un limite ma un punto di forza. Pensando alle band che prima degli Shores Of Null si sono cimentate con un unplugged, ho buone ragioni di credere che il quintetto romano non abbia nulla da invidiare ai “pezzi grossi”, ma abbia, piuttosto, qualche carta in più, data proprio dalla capacità di reinventarsi.
Davide notifica che l’evento è ufficialmente “sold out”, ringraziando il pubblico per la dedizione mostrata. “Quiescent”, tratta dal primo album, sancisce e riconferma quanto scritto a proposito della “trasfigurazione” dei brani: è un altro momento di forte intensità emotiva, in cui le voci di Davide e di Gabbo si fondono in un equilibrio perfetto. “House Of Cries” è complessivamente abbastanza simile all’originale; menzione d’onore a Emiliano, poliedrico batterista della band, che riesce sempre a dare una marcia in più anche in questo contesto.
Davide invita sul palco Elisabetta Marchetti, per un memorabile duetto: è la volta di un estratto dall’ultima fatica discografica della band, Beyond The Shores – On Death And Dying, un album monotraccia di trentotto minuti che esplora da una prospettiva inusuale – quella della persona morente – il tema del lutto nelle sue cinque fasi. Ammetto di essermi emozionata: il connubio delle voci di Davide, Elisabetta e Raffaele (qui impegnato a eseguire la parte che in studio è toccata a Mikko Kotamäki degli Swallow The Sun) è in assoluto l’apice dell’intero set, non solo da un punto di vista puramente tecnico (che pure non va sottovalutato), ma anche rispetto alla sopracitata sindrome di Stendhal. Mi sono venuti i brividi, e sono certa di non essere l’unica…
Siamo quasi alla fine del concerto: Davide ringrazia ancora, in un clima di gioiosa incredulità, e introduce il brano successivo, “Pain Masquerade”, che è a mio avviso tra i più complessi da cantare e da rendere degnamente in sede live. Prova superata, anche oltre le aspettative.
Segue un altro strumentale, “Death Of A River”: si presta particolarmente al contesto e porta a un naturale senso di raccoglimento e attesa. L’arrangiamento mette in risalto l’intesa tra i due chitarristi; Raffaele a un certo punto sfoggia persino un po’ di tapping, con un’eleganza rara.
In chiusura, un cavallo di battaglia: “Souls Of The Abyss”. Di nuovo, le parti in growl, rivisitate in uno spoken word, sono particolarmente evocative e cariche di pathos.
Sembra tutto finito, ma il pubblico esige un bis, così Davide chiede a Elisabetta di salire sul palco per eseguire un’altra volta “Beyond The Shores”. Questa volta, complice anche una maggiore (doverosa) lentezza nella ritmica e una certa scioltezza nella performance, il brano si presenta come una degna conclusione di un set acustico estremamente carico di implicazioni che in parte esulano dalla musica: dopo un anno e mezzo di pandemia, quello che resta e resiste è l’indefinibile e misteriosa potenza dell’arte, che ci avvicina e ci unisce. Mi scuso ancora per la retorica, ma aver assistito a questo live ha avuto su di me un effetto quasi terapeutico e, di nuovo, sono certa di non essere la sola.