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SHARON VAN ETTEN

Sharon Van Etten

Con i tempi non ci siamo. Avesse esordito appena qualche anno prima, Sharon si sarebbe trovata sul carrozzone del revival del folk a largo spettro e adesso vivrebbe nell’empireo dove, meritatamente, ci sono Joanna Newsom, Marissa Nadler o le autrici che cita lei stessa più avanti. Non le importa più di tanto, così come è evidente la costante rielaborazione di uno stile che si è arricchito disco dopo disco, sino a Tramp e sino a qualcosa che è altro anche rispetto al folk citato prima… e va bene così. Due chiacchiere con lei sono state un piacere.

Classica, ma a mio parere sempre importante: come hai iniziato a suonare? Cosa ti ha spinto a dedicare la tua vita alla musica?

Sharon Van Etten: Dopo la partenza per il college, mio fratello mi regalò la sua chitarra acustica. Mia madre mi ha sempre incoraggiato a seguire lezioni e a scriverne in una sorta di diario. Ho fatto anche parte di un coro dedito ai musical per tutta la High School. Nonostante questo, solo dopo i 24 anni ho deciso che sarebbe stato il caso di provare a realizzare qualcosa di mio.

Ti andrebbe di definire ciò che è la tua musica oggi?

Soprattutto terapeutica e catartica.

Ci racconti del tuo disco d’esordio, Because I Was In Love?

È stato il primo disco vero e proprio che abbia mai registrato. È tutto composto da versioni di base di demo registrate nella cantina dei miei genitori, rimescolate e rimesse un po’ in sesto. Epic è stato invece il vero passo successivo, il mio primo disco con una band costituita per l’occasione e con le specifiche necessarie per la riuscita dei pezzi.

E allora si arriva subito al nuovo Tramp. Penso sia un magnifico punto di ripartenza di tutte le tue “chiavi musicali”.

Sì, anche perché è la prima volta che ho davvero lasciato aperte le porte della collaborazione, soprattutto in fase di produzione. Sino a Tramp ho sempre imposto almeno tutti i punti di giuntura delle fondamenta sonore che desideravo. Con Tramp invece sono entrata in studio con una manciata di demo senza avere assolutamente un’idea di cosa farci davvero. E poi capita che si cresce e si conferma se stessi più con lavorando assieme agli altri che con un fare, diciamo, “dittatoriale”.

Quali sono le tue ispirazioni, non solo in campo musicale?

Nick Cave, PJ Harvey, Woody Allen, Richard Brautigan, Richard Bach, William Baines, Lower Dens, Anaïs Nin…

Cosa pensi del rifiorire del folk e dello psych-folk degli ultimi dieci anni?

È stato qualcosa di positivo che ricorderò e ricorderemo sempre, ma in quel periodo ho avuto serie difficoltà con le case discografiche. Penso che si lasciasse troppo spazio all’immaginazione. Nonostante ciò adoro e sono sicuramente tra le mie ispirazioni anche Tara Jane O’Neil, Tiny Vipers, Espers, Otto Hause, Jack Rose, Meg Baird e anche Thurston Moore.

Qual è il tuo approccio al songwriting? In che modo nascono le tue canzoni?

Scrivo come in un flusso di coscienza ogni volta che passo un brutto periodo. Poi però registro dopo aver fissato una melodia e un ritornello e di lì in poi mi lascio andare. Riascolto e ritorno a pensare a cosa volevo davvero cercare di dire e realizzare. Come dicevo prima, lo trovo molto terapeutico.

Conosci artisti folk italiani?

Ok, è imbarazzante ma non conosco molto la musica italiana. Conosco Le Orme e li amo. Mi suggerite qualcosa?

E il tuo approccio live?

Adoro suonare. È sempre, sempre un’esperienza unica così come il modo con cui ti connette con la gente. È il reale motivo per cui faccio quello che faccio.

Poi Sharon si congeda così:

Out of sorrow entire worlds have been built, out of longing great wonders have been willed

(Nick Cave)

 Sharon Van Etten