SHABDA
Il progetto Shabda nasce in seno ai TMK (ex Thee Maldoror Kollective, ora Textbook Of Modern Karate), formazione guidata da musicisti che non hanno mai nascosto una profonda indole sperimentale e che, oggi, hanno deciso di fondere insieme la propria passione con il percorso spirituale intrapreso tempo fa da due di loro (Anna e Marco). Dall’incontro tra Occidente e Oriente prende forma una realtà ricca di sfaccettature che Marco ci racconta lungo questo interessante faccia a faccia.
Cominciamo con il parlare dei TMK, oggi Textbook Of Modern Karate. Qual è lo stato del progetto e cosa bolle in pentola? A essere onesto ho perso le vostre tracce dopo Need The Needle del 2009.
Marco: In un certo senso le ho perse anch’io. Già durante le registrazioni di Need The Needle avevamo cominciato a scrivere Knownothingism, un album che abbiamo terminato da pochi mesi e che ha avuto una gestazione complessiva di cinque anni. Troppi. Knownothingism ora è pronto, secondo noi è un disco molto figo, una cosa davvero pop eppure pieno di idee sperimentali, il nostro primo lavoro strutturato sulla voce (che è di Pina Kollars della Realworld Records), e con un mood generale decisamente progressive. Questo però non toglie che cinque anni siano sempre troppi, e che i punti di forza dell’album siano anche i suoi limiti: troppo pop per le label con cui eravamo abituati a trattare, troppo acido per le etichette pop. Una line-up pazzesca un po’ italiana, un po’ austriaca e un po’ USA, una produzione che non ci saremmo mai sognati e pezzi che scivolano dai Pink Floyd al funk al kraut e un sacco di altre cose, ma probabilmente non vedrà mai la luce. Credo lo metteremo in download sul nostro Bandcamp per pochi dollari, magari ne uscirà una limited edition in vinile. Vedremo, amo questo disco ma non ho un attaccamento così forte alla sua realizzazione come quello che potevo avere ai tempi di Maldoror, quindi meglio se uscirà fisicamente e sarebbe certo un peccato tenerlo in un cassetto, ma in caso contrario bene lo stesso.
Dalla formazione storica dei TMK nasce Shabda, un viaggio a sé e profondamente legato alle vostre esperienze extramusicali. Mi piacerebbe partire da questo aspetto e dal vostro legame con le filosofie orientali.
Io, Anna e Riccardo suoniamo insieme da dieci anni, cominciammo dopo le registrazioni di New Era Viral Order. C’è un’intesa profonda ed è stato molto naturale unire le diverse personalità musicali in questo nuovo progetto: Anna, oltre ad essere la mia compagna, è sempre stata un elemento fondamentale fin dai tempi di Maldoror, e Riccardo è per noi come un fratello, ed un musicista eccezionale. Il background di Shabda nasce invece dal percorso che io ed Anna facciamo insieme da molti anni. Si tratta di una esplorazione, anche se forse è più opportuno parlare di ricordo di sé, perché è sempre fuorviante parlare di una disciplina spirituale come di un metodo in grado di trasformare l’uomo in qualcos’altro. Piuttosto è riappropriazione, ricordo di una dimensione che ci appare estranea perché abbiamo una radicata, ferrea abitudine a crederla esterna o distante da noi. Il piombo è eternamente oro, ed è la sua inossidabile convinzione di essere unicamente piombo che lo lega al piano del samsara. Abbiamo avuto modo di approfondire la pratica yoga a Varanasi e a Jaisalmer presso alcuni circoli shaivam, ed abbiamo cercato quel tipo di esperienza perché da tempo siamo vicini all’Advaita Vedanta, pur tenendo sempre presente come tutte le correnti siano in realtà aspetti e punti di vista della medesima tradizione. Occidente e Oriente non si escludono affatto, anzi. Penso all’alchimia e al ruolo che questa ricopre nel Taoismo così come nell’esoterismo occidentale. Di più: tutto è alchimia, tutto è condensazione e rarefazione.
Se non erro, Shabda deriva dal termine sanscrito per indicare il suono e in particolare quel particolare suono da cui derivano i mantra. Il che mi porta a riflettere sulla reiterazione e sull’utilizzo di suoni lasciati vibrare di cui è ricca la vostra musica. Un aspetto che si ritrova in molti tipi di musica sacra e di suoni rituali anche in culture tra loro distanti per epoca e luogo.
Anna studia sitar e musica hindustani, e insieme siamo molto interessati all’etnomusicologia, principalmente asiatica e del Medio Oriente. In modo amatoriale, direi, nel senso che è un campo di tale vastità che continuiamo a essere dei perfetti ignoranti in materia, ma mettiamo insieme dei dettagli, delle informazioni e delle similitudini. Le idee di reiterazione e di bordone sono parzialmente nuove solo per l’Occidente fino al Novecento, perché in India (così come nella musica mediorientale e in declinazioni differenti nella maggioranza delle musiche rituali del mondo) è sempre stato naturale pensare al suono come a un cardine fondamentale della pratica spirituale, magica o mistica. Un genere come l’ambient o quel grande contenitore che è la musica psichedelica riprendono in realtà quelle funzioni e quei metodi traslandoli nel contesto strumentale e culturale occidentale, e credo che Shabda nasca in quella intersezione. Si tratta di prestare attenzione all’origine, al suono puro, ed al suo rapporto con il tempo e lo spazio, ed il nostro suono unisce in qualche modo due linguaggi diversi, l’Est e l’Ovest, nel momento in cui questi sono funzionali al medesimo scopo.
Dal punto di vista musicale, Shabda nasce dall’unione tra sonorità rituali orientali e dilatazioni drone-doom, ma vi scorgo anche una componente psichedelica e certe derive ambient. Non deve essere stato facile trovare il punto di equilibrio tra tradizioni musicali così differenti e riuscire ad amalgamare il tutto.
Come ti dicevo, credo che la chiave sia l’intento. Penso che in qualche modo con Shabda cerchiamo di costruire la situazione del suono, il suo dna, ed il resto viene di conseguenza. Molto spesso è il suono iniziale che poi genera se stesso, e quella sua imprevedibilità, pur nel suo essere una matematica che non decifriamo immediatamente, è forse una delle cose che più ci affascina.
Nella vostra pagina citate una frase di Riley che credo valga la pena commentare e sulla quale ci si possa soffermare: tradizione è solo “ciò che funziona”, ed esiste come risultato di una costante sperimentazione priva di dogmi e facile moralità.
Sì, Riley fornisce questa definizione di tradizione che trovo particolarmente illuminante. Innanzitutto perché libera il campo da qualsiasi strumentalizzazione si possa ipotizzare del concetto stesso di tradizione: non possiamo e non dobbiamo considerarla mai sacra e inviolabile di per sé, perché qualsiasi suo aspetto o dettaglio è stato una violazione del precedente. E anche non credo sia particolarmente utile o intelligente rifiutarla a priori soltanto perché in qualche modo ne soffriamo il peso. Anche solo a livello linguistico, il rifiuto a priori di ciò che viene etichettato con il bollino ingombrantissimo di “tradizione” credo sia una forma di auto-mutilazione. Per questo mi piace il pensiero di Riley, perché inquadra la tradizione in un contesto più corretto, assimilandola, ad esempio, all’architettura: costruire un palazzo usando delle fondamenta è “tradizionale” perché permette all’edifico di stare in piedi, non per “tradizionalismo”. E abbiamo capito che questo metodo funzionava sperimentando, non certo applicando dei dogmi all’architettura, ma soltanto comprendendo le leggi fisiche di base. Vale lo stesso discorso per la tradizione spirituale, perché possiamo considerare tradizionale tutto quel bacino di pratiche che ci permette di ottenere un’effettiva esperienza, e che è quindi più che mai concreto e pragmatico, non certo perché è soltanto affermato da un qualsiasi maestro spirituale. Anzi, in questo senso la tradizione se ne frega ampiamente di chi la relega al guru di turno dell’Est, di chi dice di guardare a nord, di chi ne impone l’origine in Africa o di chi la vorrebbe trasformare in prerogativa esclusiva di una nebulosa e nient’affatto provata radice indoeuropea. Se ne frega clamorosamente.
Visto l’enorme grado di contaminazione che accomuna TMK e Shabda, risulta evidente una vostra attitudine onnivora nella fruizione dei suoni altrui. Quali sono stati i dischi e i gruppi che vi hanno segnato maggiormente nel corso degli anni e quei musicisti che hanno contribuito ad allargare le vostre vedute e i vostri gusti?
Questa è una delle domande più difficili di sempre, perché nel momento in cui ci penso mi vengono in mente alcuni momenti spalmati negli ultimi vent’anni a cui poi cominciano ad aggiungersi talmente tanti nomi e suoni che alla fine ho un elenco troppo simile alle playlist di fine anno dei magazine musicali. Quindi magari ti dico cinque cose che sto ascoltando in questi giorni: Stil. di Taylor Deupree, la Trilogie de la Mort di Eliane Radigue, In The Red degli Unearthly Trance, Vistaar di Vilayat Khan e The Best Is Yet To Come di Snowman. In effetti ti ho risposto a una domanda diversa, mi sono semplificato la cosa.
Che tipo di reazioni sta ricevendo The Electric Bodhisattva? Credete che potrà incuriosire anche ascoltatori solitamente abituati a sonorità più estreme oltre che gli spiriti onnivori?
Le reazioni all’album sono state inaspettatamente positive, stiamo ricevendo un ottimo feedback sia dalla stampa sia da chi il disco lo ha comprato, ed è piaciuto a chi ascolta principalmente black-metal come a chi mastica drone ed ancora ad un pubblico più orientato alla sperimentazione e alla contemporanea. Quindi sì, credo che abbia qualche potenzialità per molti tipi di ascolto diversi. Forse perché al di là della sua forma musicale – Shabda è un progetto molto più contestuale di TMK, molto più consapevolmente riconducibile alle regole di genere – The Electric Bodhisattva si appoggia in modo più o meno evidente all’idea di musica rituale, e quindi a una dimensione dell’essere profondamente radicata nell’uomo. C’è una componente culturale relativa a questo tipo di musica, ed è perfettamente sradicabile. Ma se parliamo di spiritualità, ed entrando nel campo delle convinzioni personali, allora dobbiamo abbandonare ogni lettura culturale, intellettuale o emotiva. Non dovremmo tentare di ricondurre l’esperienza spirituale a luoghi, siano essi esteriori o interiori, a contingenze culturali oppure a nodi emotivi irrisolti, perché saremmo terribilmente fuori strada. Come dire che il sunyata, il tao o lo zen, nel momento in cui vengono definiti secondo le categorie del pensiero occidentale ed attraverso gli strumenti del linguaggio o dell’emozione, già non sono più ciò che davvero sono. Sono fuori tema di brutto.
Avete intenzione di portare il progetto anche in sede live?
Direi di sì, e probabilmente presto.
Grazie mille del vostro tempo, vi lascio spazio per concludere come preferite…
Questa è la seconda domanda più difficile di sempre, quindi ringrazio te e The New Noise, è un piacere ritrovarti a distanza di tutti questi anni.