SELVANS, Faunalia
I Selvans si sono saputi distinguere nell’odierno panorama estremo italiano perché coniugano in modo personalissimo black metal, folk e le mitografie del centro Italia (Abruzzo e Umbria soprattutto). Avantgarde, a suo tempo, non ha aspettato un minuto per metterli sotto contratto, pubblicando il debutto Lupercalia. Oggi il duo abruzzese torna con questo secondo album Faunalia, in cui il suo “metal estremo occulto” prende delle forme interessanti, molto elaborate ma – perché no? – alcune volte anche discutibili.
Un’introduzione con tamburi, bubolii, flauti e altri strumenti della tradizione abruzzese vi regala l’impressione di trovarvi negli immaginari boschivi di Arckanum, traslati però in una dimensione più italica. Passano pochi secondi e siamo invitati a entrare in una specie di concerto campestre, una sagra rurale lontana da noi di quasi cento anni, in un paese in festa all’ora del tramonto. Sempre su diverse armonie folk si muovono le chitarre elettriche, che danno il via a una ballata panica. Spuntano le voci di Agghiastru (storico frontman degli Inchiuvatu, che canta in siciliano e abruzzese, rafforzando l’idea di un comune mondo nascosto che si esprime grazie agli idiomi delle rispettive terre) che duettano con quelle dei Selvans.
Le urla si fanno piano piano sempre più costruite, ri-registrate, effettate, modificate e alterate dalla post-produzione, gli screaming sono iper-taglienti e vengono filtrati con echi e “pitchati”, diverse vocine e vociastre richiamano il mondo notturno degli esseri immaginari più disparati. Le chitarre aumentano di numero, spesso fino a tre, i synth prendono il sopravvento creando la gigantesca colonna sonora di un carnevale mostruoso. Possiamo sentire classici pianoforti, come solo Stormblåst sfornava, alternati ad hammond e ad orchestrazioni fantasmagoriche. Provate a pensare a tutto questo e a convertirlo in una sorta di elaborazione barocca, ma se vi viene in mente Spiritual Black Dimensions dei Dimmu Borgir, allora siete vagamente fuoristrada: Faunalia ha una dimensione terrestre, elaborata e intricata, mentre all’epoca Shagrath & co. miravano a deliri apocalittici ben distanti da quello che sentiamo qui. I brani sono tiratissimi e senza freni, anche se la batteria è forse l’unica vera croce di questo disco, perché va sempre troppo veloce, è iper-prodotta e triggerata, ed è costantemente votata alla violenza più spinta, così da snaturare spesso gli scambi teatrali fra voci e strumenti in primo piano.
Molti sono i dubbi e le domande aperte che mi lascia un album come Faunalia: ho ascoltato poche volte qualcosa che avesse allo stesso tempo il “troppo che stroppia” e una cura maniacale per ogni secondo e per ogni elemento musicale. Partiamo dalla resa delle voci, e non mi riferisco al parlato in latino, in italiano o in dialetto, ma proprio alla produzione, che ho trovato molto ben ragionata, in maniera quasi patologica (in senso buono), come solo nei migliori Cradle Of Filth (tutto si può dire della band di Dani Filth, tranne che lesinasse sulla componente teatrale): qui sono tantissime, a rappresentare minuziosamente diverse personalità del mondo silvano della band, con il perfetto esempio di “Anna Perenna” che mostra come una moltitudine di esseri parlanti riescano a destreggiarsi fra synth e chitarre. A volte queste ultime passano in secondo o terzo piano anche a causa (o “grazie a”, dipende come la si vuol leggere) di orchestrazioni davvero evocative, che appartengono più a un mondo cinematografico che a uno prettamente musicale, difatti i Selvans sottolineano che le loro influenze includono anche Ennio Morricone: devo ammettere che, tirando le somme, è più facile pensare a loro come a dei compositori di colonne sonore che si cimentano per sbaglio col black metal, anziché il contrario. La conclusiva “Requiem Aprutil”, ad esempio, è un’incredibile prova di forza di un quarto d’ora, durante la quale ogni elemento rinuncia a essere protagonista per dare sostanza a un’affascinante opera corale.
I dubbi emergono quando si analizza Faunalia prendendolo come un disco black metal: quando i brani vengono eseguiti vestendo l’abito black – i riff che si susseguono, la voce che deve stare dentro una metrica, la batteria che deve scandire i tempi – ci sono a mio avviso delle perdite di attenzione: “Magna Mater Maior Mons”, uno dei brani più canonici, per quanto possa avere mille variazioni ritmiche, risulta essere un grandissimo vuoto amplificato. Tutto è estremamente curato, votato alla variazione e al dinamismo ma le chitarre compongono lunghi riff riempitivi che a loro volta vengono surclassati dai deliri di onnipotenza della batteria e dalle prove vocali. Ho notato tantissime analogie fra la potenza iper-prodotta di Faunalia e quella degli ultimi Dimmu Borgir, e se vi sforzate di prescindere dagli strumenti e dalle melodie folk, troverete un modus operandi non troppo diverso.
Ottimi gli intermezzi stregoneschi di “Phersu”, con campionamenti cinematografici che ricordano tantissimo Cruelty And The Beast; lodevoli e incredibili i lavori dietro le tastiere, soprattutto sul finale. Più destabilizzanti, ancora una volta, questi continui e velocissimi ping-pong fra la batteria e la recitazione animalesca, con blast-beat e urla a non finire che convergono in un perenne collasso: a lungo andare tutto queste perde in termini di pathos a causa del su ripetersi incessante. Quel “troppo che stroppia” di cui parlavo, che però sta su uno dei due piatti della bilancia: dall’altra parte sosta “un disco davvero affascinante”.