SELJUK RUSTUM, Cardboard Castles
Confesso subito che qualsiasi cosa profumi di India ha su di me un effetto benefico, che si tratti di un viaggio o di arte, letteratura, natura, cibo o ancora naturalmente musica. Dunque, dopo che negli ultimi mesi ho apprezzato – e molto – le produzioni di musicisti anglo-indiani come Paul Purgas, Auntie Flo o Sarathy Korwar (a breve tour in Italia), eccomi ad ascoltare da giorni questo Cardboard Castles, primo album di Seljuk Rustum dopo due ep, Yellow Belly (2019) e Mimansa (2022), usciti su Bandcamp.
Seljuk Rustum, produttore elettronico, chitarrista, sassofonista, pittore autodidatta, è nato a Kannur nel nord del Kerala e ora è residente a Cochin, la grande, bellissima città sulla costa meridionale del sub-continente indiano, e va detto che il Kerala è lo Stato più avanzato, laico, scolarizzato di tutto l’immenso paese asiatico. Rustum ha in passato lavorato molto con varie compagnie teatrali d’avanguardia indiane e collaborato con musicisti del calibro di Otomo Yoshihide, Eiko Ishibashi, gli indonesiani Senyawa, e finalmente dispiega il suo potenziale creativo in modo del tutto autonomo ed originale, quindi – dopo le prove precedenti più astratte e sperimentali – per Cardboard Castles si inventa un suono composto da dolce psichedelia orientale, mistero ma anche da un’ironia tutta indiana.
Rustum è al piano, synth, sequencer, percussioni e voce, Sekhar Sudhir al violino, melodica e mandolino, Akshay Ashokan chitarra elettrica, Joffy Chiratay alla batteria, mentre la Cochin String Orchestra ci introduce il primo brano con l’incantatoria “Body Of A Dolphin, Breasts Of A Cloud” (George Harrison è nell’aria). Segue la poetica e buffa “The Dancer Is Seen Not Heard”, tratta dal suo lavoro teatrale “BUS”, scritto per il coreografo Firoz Khan, e sembra proprio di vederlo, questo ballerino, fare-le-facce agli spettatori indiani che son sempre e giustamente meravigliosamente stupefatti. In “Desy Bunny” la melodica di Sekhar Sudhir ci conduce sulle montagne al confine con il Tamil Nadu e contempla delle registrazioni effettuate sul campo dall’etnomusicologo Alan Lomax nel 1971, dopo ci troviamo nel paese più felice del mondo, quello senza storia! Durante “The Happiest Country Has NO History” c’è Lennon nell’aria e certo mai titolo fu più appropriato, oggi più che mai nel paese dell’ultranazionalista premier Narendra Modi, poi tocca alla lussureggiante “Sometimes I Sink A Thousand Centuries”, quando un vortice psichedelico/devozionale ammalia l’ascolto fino a “Fallen Sky”, dove il sax-alto di Rustum omaggia lo spiritual-jazz della famiglia Coltrane tutta. “Oriental Doom” e “Cardboard Castles” sono due lunghe improvvisazioni che rappresentano il cuore pulsante dell’album e del lavoro di editing effettuato, musica senza tempo che nello spazio dell’ascolto e nel teatro della nostra mente trova soddisfazione (la nostra) e destino finale. “Export Quality” de “L’Ultimo Imperatore” (dunque Sakamoto, possa riposare in pace) infine “Zen Coma”, a dispetto dell’inquietante titolo, è altresì una sorta di rilassata, ciondolante nenia strumentale. Jai Guru Deva.