SEDITIUS
Il coraggio di re-inventarsi, di seguire la propria strada senza dover rendere conto a nessuno se non a se stessi, la voglia di rimettersi in gioco e di utilizzare una circostanza avversa come motore della trasformazione, il tutto senza rinunciare alla propria personalità e alla propria visione di ciò che conta e di ciò che è importante. I Seditius, hanno deciso di correre il rischio e di pubblicare un disco che segna un taglio netto con il passato, ma resta nel cuore e nell’attitudine 100% Seditius.
Cambi di line up, concerti, nuovi brani, uno stile differente, sembra che sia successo davvero di tutto dopo Carne Da Macello?
Noodles (vocals): Effettivamente sì. Carne Da Macello è stato un passo importante per noi, ma non potevamo e non volevamo ancorarci a qualcosa. È stato un buon disco hardcore – benché non così classicamente hardcore – e ci ha permesso di imparare quanto fosse figo girare con la scusa della band.
È successo però che, mentre stavamo già virando verso un altro tipo di sonorità, a fine 2011 siamo rimasti senza un chitarrista. Con una chitarra in meno a coprire le magagne, abbiamo acquistato molto più groove sia come band sia come gruppo di persone. Arrangiare i brani e organizzarsi per i tour è diventata una cosa molto più naturale, a tratti quasi indispensabile. Non capita proprio a tutti di avere lavori full time e riuscire nonostante tutto a girare undici stati diversi in dodici mesi.
Parliamo dei nuovi brani e del vostro nuovo approccio. A condensarlo in due parole, mi viene da dire “Revolution Summer goes sleaze”. Diciamo che mi incuriosisce questo connubio tra post-core minimalista e attitudine sguaiata molto bluesy…
Addirittura la Revolution Summer? Dai, così arrossisco! A parte questi piacevoli paragoni, come ti dicevo, a fine 2011 siamo rimasti in quattro. Questo fatto ha rappresentato un momento di svolta a livello compositivo: proveniamo tutti e quattro da formazioni e scene differenti e abbiamo deciso di non nascondere la cosa.
Non avevamo un progetto preciso, facevamo solo jam interminabili spesso correlate da discussioni paradossali. Il resto è una conseguenza dell’incredibile mano del Teo (il bastardo è stato in giro pure con Franco Cerri per un tot!), dell’incredibile gusto e senso critico di Nerchia e della tenacia di Abbo nel tentare di tirare assieme noi altri scappati di casa. Ok, chi ci conosce penserà che stia scherzando, ma in realtà devo seriamente dargliene atto: a questo disco ci ha tenuto un sacco, è diventato spesso un scassacazzo infernale ma alla fine, a lavori finiti, posso tranquillamente dire che se non ci fosse stata la sua voglia, questo ep sarebbe stato sicuramente una cosa diversa e, probabilmente, le cose sarebbero andate molto più per le lunghe (nota del redattore: Matteo, chitarre, cori, organo; Nerchia, basso; Abbo, batteria, cori).
Resta comunque forte la matrice punk, mi viene da pensare all’hardcore punk della prima stagione, quando ad unire era più l’attitudine che la musica.
La cosa figa dell’hardcore o della scena diy o del punk, chiamalo un po’ come ti pare, è sempre stata l’essere un qualcosa di squisitamente iconoclasta. Oggi invece una parte sempre maggiore di tutto questo viene sempre più istituzionalizzata e sottoposta a regole e dogmi. E ti sto parlando di “scene” diversissime fra loro. Dallo pseudo-screamo per cui conta solo il taglio dei jeans e il tatuaggio che si intravede sotto la canotta ai vari attivisti/predicatori del veganesimo con le sneakers da 150€ ai piedi. Rigorosamente in eco-pelle, cucite da dei bambini nel sud-est asiatico eh, ma in eco-pelle.
Il fatto che tu noti questa forte componente attitudinale mi fa un sacco piacere, perché al discorso “attitudine/indipendenza” ci teniamo veramente tanto. Certo, seguire le varie mode alle quali accennavo prima ci renderebbe la vita molto più semplice, ma non aspiriamo ad essere quel tipo di band, né tanto meno quel genere di persone.
Pensate di restare con questa formazione più “asciutta”? Quali i pregi e i lati negativi dell’essere rimasti senza una chitarra?
Penso proprio di sì. In quattro è tutto molto più semplice. Dal comporre all’organizzarsi per i tour.
Anche l’artwork è particolare e capace di incuriosire l’ascoltatore. Come nasce e come si collega al titolo Misplaced?
C’è voluto un po’ prima di trovare un soggetto che soddisfacesse tutti. Alla fine abbiamo recuperato questo fotomontaggio del 1931 che ritrae una donna che cavalca uno struzzo con la testa di cammello.
Credo che questo disco abbia qualcosa da dire sia a livello musicale sia su un piano contenutistico, ma non volevamo dargli una veste troppo seria. Abbiamo quindi optato per un artwork abbastanza nonsense, quasi in polemica con tutte quelle situazioni che tendono a prendere troppo sul serio la propria immagine. Non abbiamo registrato un classico disco di genere, con una copertina tipica per quel genere, perché ci interessava fare qualcosa che rientrasse in determinati canoni. Abbiamo fatto l’opposto di tutto questo, artwork (quasi) nonsense incluso.
Misplaced, cioè fuori luogo. Fuori luogo qui in questo momento storico o in generale nella società, un po’ come la pecora nera della famosa copertina dei Minor Threat (ovviamente mi riferisco a Out Of Step)?
Direi entrambe le opzioni, anche perché la società ha un rapporto bidirezionale con il momento storico: ne è allo stesso tempo figlia e madre. Detto ciò, questo periodo non è proprio il massimo, sia che tu lo osservi dal punto di vista di una band, sia dal punto di vista – più ampio – della nostra generazione. E per nostra generazione intendo quella nata con il crollo del muro di Berlino e diventata “grande” con il declino del modello neoliberista. Siamo completamente al buio e – in una situazione come questa – fuori luogo vuol dire non accontentarsi più dell’aggrapparsi a vecchi modelli, che alla fine poi è quello che fa la maggior parte delle persone. Tra il nuovo e il conosciuto, si sceglie sempre il conosciuto anche quando non porta reali benefici.
Questo “Misplaced” è una presa di posizione, un omaggio alle persone che scelgono quotidianamente di sperimentare nuove vie piuttosto che tenersi disperatamente strette quelle già conosciute e già rivelatesi fallimentari. E con questo intendo veramente qualsiasi tipo di situazione: dalla band che non vuole essere la semplice copia del nuovo gruppone ammerigano agli esperimenti di autogestione e azione diretta.
Esiste, allora, un luogo in cui vi sentite a vostro agio e che potreste chiamare casa? Magari una situazione.
La strada. Il viaggiare inteso come momento indipendente dalla destinazione. Che è anche l’altro grande tema del disco. Dover fare 4200 km in una settimana a bordo di un furgone non è una cosa semplice, vuol dire spendere la tua giornata nel van. Ti deve piacere, devi avere uno spirito nomade che non tutti hanno. Noi abbiamo scoperto di averlo negli ultimi due anni. Essere in tour è una cosa fighissima, una dimensione del viaggio che non conoscevo. Non sei un semplice turista, sei molto più a contatto con i locali, accedi a situazioni e posti che normalmente non vedresti ed il 99% delle volte (per quello che è una realtà completamente diy come la nostra) vieni ospitato direttamente da dei tuoi coetanei.
Ecco sì, se dovessi scegliere un posto in cui stiamo/sto veramente bene, ti risponderei che non ce n’è uno preciso, basta essere in viaggio, indipendentemente dalla destinazione.
Se non erro, il disco è ricco di riferimenti letterari e a pensatori più o meno vicini. Viene quasi da credere che i vostri testi siano più importanti della musica. Il che ovviamente è una provocazione, ma rende bene l’idea…
Per me è realmente così, ma non lo dire agli altri tre! No, dai, cazzate a parte, i testi sono una componente fondamentale in una nostra canzone, al punto che in questo disco più che mai gli altri tre si sono interessati alla cosa, diventando alcune volte forse fin troppo pignoli.
Mi sono sempre piaciute le canzoni con diverse chiavi di lettura ed è quello che in questo disco si è tentato di fare. Canzoni più semplici, come “A Radical Blues” o “Landscapes”, possono essere lette in altri modi o addirittura acquistare valore se hai letto Victor Serge o Emile Verhaeren per il primo caso o Q per il secondo; fra “L’Odio” di Kassovitz e “So Far So Good” c’è una certa relazione, stessa cosa fra la vita di Marius Jacob e degli illegalisti francesi e “On The Eve Of The Hurricane”.
In generale quest’ep è stato un tentativo di omaggio letterario alla cultura libertaria, troppo spesso snobbata e sottostimata.
Come vivete a questo punto una società de-culturata come la nostra? Come credete sia possibile relegare il leggere e il confrontarsi a un mero orpello, se non a un vero e proprio oggetto di scherno?
Secondo me così non regge molto a lungo. Una delle cose che inevitabilmente cambierà a breve assieme agli assetti economici e politici è anche il rapporto società-cultura. C’è da tenere duro, andare avanti per la propria strada senza mai sottovalutare il valore positivo degli esempi. Certe cose sono arrivate fino a noi e magari sono esplose perché qualcuno nei “momenti bui” non si è scoraggiato ed ha continuato a “conservarle”.
A voi le conclusioni di questa chiacchierata… dove, come, quando potremo vedervi dal vivo?
Grazie come al solito a te Michele per le domande sempre sul pezzo ed a The New Noise per darci sempre dello spazio. Per le prossime date tenete d’occhio la nostra pagina Facebook. Se invece volete scaricarvi il nostro ultimo lavoro, lo trovate sul Bandcamp di Rancore. Potete scaricarlo gratuitamente settando il vostro prezzo a zero.
Ciao e grazie ancora!