Seattle Sounds: Rehab Doll dei Green River
Il nome dei Green River è già venuto fuori quando vi abbiamo raccontato Apple e non poteva essere altrimenti, visto che proprio dallo scioglimento della band era scaturita l’iniziale scintilla che avrebbe portato alle jam da cui i Mother Love Bone sarebbero nati.
La storia di cui vi parliamo oggi inizia nel 1984, ben prima che il termine grunge prenda un significato compiuto, quando Mark Arm, Steve Turner, Jeff Ament e Alex Vincent decidono di formare una band cui si aggiungerà presto l’amico di Ament, Stone Gossard, così da dar modo a Arm di lasciare la chitarra e concentrarsi sul cantato. La formazione, che prende il nome da un famoso serial killer che si muoveva nel nord ovest degli Usa, si regge su quello che sarà anche il motivo del suo scioglimento, ovverosia il precario equilibrio tra un’anima punk/diy e una metal/desiderosa di sfondare che alla fine prenderà il sopravvento quando Turner abbandonerà la nave e verrà sostituito da Bruce Fairweather. Finché quest’impalcatura regge, tiene su uno dei gruppi più freschi e interessanti di Seattle, tanto da farne a tutti gli effetti uno dei motori che da lì a poco daranno il via ad una scena locale destinata ad esplodere in tutto il pianeta. Ma, come nel caso dei successivi Mother Love Bone, anche qui parliamo di una band arrivata al primo album già finita, tanto che Rehab Doll è a tutti gli effetti un album postumo proprio come lo sarà Apple. Prima dello scioglimento e della decisione di portare comunque a termine le registrazioni del disco, i Green River realizzano due ep (Come On Down e Dry As A Bone) e prendono parte a due compilation fondamentali quali Deep Six (cfr. Apple) e Subpop 200.
Salto al di là dell’oceano, anno 1987, quando dopo aver concluso il liceo prendevo la decisione di ritrasferirmi da Roma ad Ancona. In questo periodo, smaltita la sbornia per l’esplosione crossover di metà decennio, ero alla ricerca di nuovi stimoli, proprio come stava accadendo a molti gruppi hardcore sempre più contaminati e in fermento: non a caso in quel periodo sarebbero usciti dischi spartiacque a firma Dag Nasty, Scream, 7 Seconds, Hüsker Dü, Meat Puppets e molti altri ancora, tutti accomunati dalla voglia di lasciarsi alle spalle la ruvida urgenza hardcore iniziale per assorbire linguaggi e possibilità espressive differenti. Insomma, eravamo in parecchi a cercare qualche spunto nuovo che sapesse riaccendere la scintilla e ricaricare l’energia che si andava in qualche modo affievolendo. In questo periodo, tra i vari nomi nuovi arrivati in soccorso, uno in particolare era riuscito a stuzzicare la mia curiosità, parlo proprio dei Green River e di Dry As A Bone che monopolizzava il mio walkman insieme al debutto dei Jane’s Addiction e a Screaming Life dei Soundgarden. In particolare, la band che avrebbe lasciato in eredità ai suoi fan l’unico album Rehab Doll aveva dalla sua una scrittura assolutamente originale in grado di unire un retrogusto garage, l’urgenza dell’hardcore di marca SST (le prime cose trasudano Black Flag), l’energia del metal più viscerale, le radici affondate nella tradizione blues e un piglio provocatorio in fuoriuscita da testi al limite del politicamente scorretto. Una miscela malsana, la loro, con un che di inquietante nel modo in cui le varie anime della band si rimescolavano e lasciavano sempre ben palpabile quella sensazione che il tutto possa esplodere da un momento all’altro.
Rehab Doll è il parto di una formazione in cui si sta spaccando qualcosa: Turner se ne è già andato (si riunirà ad Arm nei Mudhoney) ed è stato sostituito da Bruce Fairweather che sposterà l’asse in netto favore del lato metal insieme ad Ament e Gossard, ma questo non influirà nella scrittura del disco che resta acida e urticante come da tradizione della band, piuttosto lascerà che questo lavoro nasca già orfano perché i tre hanno deciso di unirsi a Wood e spiccare il grande balzo da sempre rincorso. I brani entrano in testa dal primo ascolto e sollecitano immagini di disagio immerso nella nebbia e nel verde di Seattle, non ci sono le villette unifamiliari ma roulotte e prefabbricati, palazzi fatiscenti in centro in cui andare a procacciarsi la roba e in generale una vita dall’orizzonte basso, schiacciato dall’umidità del luogo, la provincia americana che non è più grande frontiera ma sogni infranti e cocci rimessi insieme alla bene e meglio. O almeno, così è come me li sono sempre raffigurati io, come li ho tratteggiati mentre li ascoltavo ad Ancona e facevo la spola con l’università di Macerata, quindi tra mare ed entroterra in uno scenario che almeno di inverno non mi pareva meno umido e provinciale di quello in cui vivevano i loro autori. E con buona approssimazione proprio questo venire da un posto distante dalle solite rotte della musica che contava e sotto i riflettori contribuiva a donare ai Green River un che di speciale, un marchio di fabbrica immediatamente riconoscibile, aumentato da quel mix di gusti e personalità che li tenevano al di fuori di una scena specifica e facilmente etichettabile. Era tutto ancora in fieri, non si avvisavano ancora i bagliori della futura esplosione, ma gli ingredienti erano già tutti lì e non era difficile capire come non ci si sarebbe liberati con facilità di simili personaggi. Peccato non abbiano retto alle differenti aspettative perché basta ascoltarsi di filata la tripletta iniziale per restare stesi al tappeto dal cinismo e dalla strafottenza di questa musica sghemba, con l’anthem “scomodo” piazzato lì con nonchalance, un dito medio puntato all’imperialismo americano con tanto di Kim Gordon dei Sonic Youth come guest. Cazzo volete di più? Il resto è conferma, ribadire che sì, avevano capito tutto e avrebbero potuto fare ciò che gli piaceva, compreso sciogliersi e mandarsi a fanculo prima che il disco vedesse la luce nei negozi. In fondo, sembra la fine perfetta per un meteorite che arriva, brucia mezza foresta e lascia un bel buco nel suolo.