Seattle Sounds: finire in Catene
L’antefatto: un ciclo di recensioni – senza stress – basato sul Seattle Sound, nell’anno di un paio di trentennali pesantissimi per quella città. Alcune bellissime come lettere d’amore. Alcune scritte da un ospite d’eccezione. All’appello mancavano gli Alice In Chains, il gruppo più dark dell’universo secondo me e i miei amici che seguiamo una dieta a base di vetro e Mayhem. Un’assenza immotivata, vergognosa.
La scoperta: il mio coetaneo Giuseppe Ciotta, giornalista musicale, consulente editoriale, copywriter, traduttore, ha tutto sommato di recente pubblicato “In Catene – I Giorni di Layne Staley e gli Alice In Chains”, ora arrivato alla seconda edizione e a tremila copie vendute (prima edizione e ristampa tra luglio e dicembre 2019 per l’ex casa editrice Chinaski Edizioni, oggi assorbita da Il Castello; la nuova edizione è di settembre 2020 per Officina di Hank). Il libro possiede un ricchissimo apparato di note, dove troviamo riferimenti a fonti scritte e orali (con piccoli contributi di musicisti italiani), e ha il “plus” di essere stato firmato da qualcuno che ha passato davvero del tempo a Seattle: difficile raccontare la storia della prima incarnazione della band in modo più sfaccettato, sempre se uno vuole partire dal basso anziché inventarsi interpretazioni tutte sue, un modus operandi forse sconcertante per molti italiani che provano a parlare di musica. Emergono in modo chiaro, pur nella complessità, gli inizi poverissimi, i rapporti interpersonali all’interno della scena, il ruolo della città, la natura ibrida, stratificata e multiforme del suono del gruppo, la poetica, le differenze e i punti di contatto con la parte punk del Seattle Sound, un discorso non banale sulle sostanze, senza sensazionalismi (facilissimi con Staley), il quantitativo enorme di soldi e stress piovuto addosso a degli scappati di casa, il tutto in qualche modo sempre suffragato da un’intervista, da ritagli della stampa dell’epoca, da un accadimento, da un incrocio di testimonianze vecchie e nuove. A volte sembra che Giuseppe fosse lì sempre con Cantrell e gli altri. Pare, a leggere in giro, che non esista nemmeno in lingua originale un libro così attento agli Alice In Chains.
La soluzione: inutile, per chiudere il nostro “Seattle Sounds”, escogitare l’ennesima celebrazione di Dirt o di Jar Of Flies quando c’è in giro materiale a cui poco si può aggiungere. Meglio un’intervista “integrativa” per far uscire fuori qualche interpretazione più azzardata rispetto al rigore mostrato nel libro.
Se per caso c’è qualche adolescente o qualche ventenne folgorato da poco da “Angry Chair” su YouTube che sta scrollando col dito questo post, spero si fermi a leggere questa frase: “comprati i loro dischi, leggi ‘In Catene’”.
Il tuo libro è denso di riferimenti a fonti precise, sei stato sul posto. Tutto strano da noi, dove spesso molta gente scrive di musica anzitutto perché vuol far vedere che sa scrivere, trascurando il contesto. Com’è cambiato il tuo rapporto coi dischi degli Alice In Chains dopo aver vagliato così tanto materiale?
Giuseppe Ciotta: I retroscena che ho raccolto nel volume hanno certamente cambiato la mia percezione di quelle opere, soprattutto Jar of Flies, l’omonimo e Above dei Mad Season; cioè quelle presentate poco o nulla da Layne Staley ai giornalisti. Aver saputo da chi era coinvolto nella sua vita ciò che ci stava dietro, mi ha portato a comprenderle meglio. Il messaggio lirico di Staley ha acquisito così un valore più pregnante per me, una volta scoperti i riferimenti concreti agli eventi che stavo narrando. Riguardo al tuo incipit, potrei essere generalmente d’accordo; per quanto esistano anche biografie comunque valide seppur assemblate seduti di fronte a uno schermo, vagliando fonti indirette. È una questione di metodo. Il punto è saper scrivere di musica con tutti gli annessi e connessi che la stessa impone, al di là del proprio stile espressivo, e queste son cose che s’imparano studiando a fondo la materia, documentandosi per una vita e mettendosi alla prova sul campo, professionalmente e non solo spinti dalla passione. Questa può darti il via ma sono soprattutto il duro lavoro e una solida preparazione a fare la differenza, nonostante – e qui sono pienamente d’accordo con te – il panorama della letteratura musicale resti inflazionato da prodotti di dubbia sostanza, anche all’estero.
Tu a Seattle ci sei stato sul serio, riparto da qui. Chiedo spesso ai musicisti in che modo la loro città li abbia influenzati. Boston non è Los Angeles (per fare la citazione), Chicago non è la Bay Area, New York non è Seattle… Una volta che hai respirato quell’aria, cos’hai capito delle tue band preferite?
Che – appunto – non sarebbero mai potute nascere a New York, Chicago o Los Angeles! Quando un genere musicale è così legato a un luogo, inevitabilmente ne porta il respiro; era già successo nella storia del rock e i posti da te citati lo dimostrano. Seattle è una città sorta dentro a un bosco immenso e s’affaccia lungo uno scenario da pelle d’oca – l’Oceano Pacifico stretto nel bacino del Puget Sound – che, secondo gli stessi protagonisti, ha avuto un’influenza diretta sulla loro musica al contempo dura e aggressiva ma anche dimessa e trasognata, come solo la natura selvaggia del Nord-Ovest sa essere. La concretezza ma anche la profondità di pensiero tipiche degli abitanti di Seattle – due facce della stessa medaglia – si riversano nelle liriche di quelle band, lontane dall’edonismo sfrenato della L.A. di fine anni Ottanta che le aveva precedute in classifica appena qualche anno prima.
Il Museum Of Pop Culture di Seattle ha celebrato gli Alice In Chains. A suonare pezzi della band c’erano i Korn, i Metallica, i Mastodon, Navarro, Corey Taylor e ovviamente la scena locale di quegli anni rimescolata in vari modi. Cosa ci ha detto di nuovo tutto questo sugli Alice In Chains?
Come mi hanno raccontato sul posto, Cantrell e compagni sono reputati la band cittadina per eccellenza e meritano questa e altre celebrazioni; come la mostra dedicatagli al Crocodile Cafe giusto qualche mese prima che il leggendario locale chiudesse, in attesa che rinasca a nuova vita fra qualche tempo in una location più ambiziosa, come ho saputo da chi ci lavora. L’elenco degli artisti da te citati, e che potrebbe continuare, dimostra l’influenza pervasiva che Staley e compagni hanno avuto sulla scena rock seguente: dall’alternative del post-Seattle al nu-metal, fino allo sludge evoluto dei Mastodon; senza dimenticare gli attestati di stima di chi li aveva preceduti, come gli amici Four Horsemen e lo stesso chitarrista dei loro amati Jane’s Addiction.
Il tema di quest’altra domanda è l’influenza degli Alice In Chains sul metal, anche su quello estremo e underground a venire. Penso, tra le altre cose, a questa compilation. Di base i metallari odiano Seattle, ma – come dice Andreotti nel film di Sorrentino e lasci trasparire anche tu – la situazione era un po’ più complessa. Cosa trova una band metal negli Alice In Chains?
Forse questa considerazione è un po’ traviata dalla percezione tutta italiana del fenomeno ma, come dici bene: la situazione era un po’ più complessa. Lasciami dire che negli States, come nel Nord Europa, in genere i metallari non odiano Seattle e le sue band; basti pensare al supporto decisivo da loro offerto a Soundgarden, Alice In Chains e TAD – i più tellurici, come sappiamo – ma anche verso gli esordi di Nirvana e Pearl Jam. Allo stesso tempo, è pur vero che le proposte di matrice punk rock targate SUB POP fossero parecchio divisive ai tempi e che, per continuare, il successo globale di Nirvana e Pearl Jam abbia poi portato loro più antipatie che simpatie dalle frange senza compromessi del rock. Comunque, questa dicotomia esisteva già in fase pre-grunge a Seattle e aveva a che vedere col territorio e la socialità giovanile di lassù: i ragazzi della classe operaria di West-Seattle, che non andavano al college e seguivano il metal; e i punk di Downtown Seattle che, può sembrar strano, frequentavano le accademie d’arte e avevano un retaggio familiare più borghese. Da quest’incontro/scontro sono nati quel sound e quella scena, volendo semplificare al massimo. La compilation da te tirata in ballo, secondo me, oscilla tra un paio di rivisitazioni che fanno rabbrividire per la bruttezza e qualche cover davvero azzeccata, che ha saputo cogliere lo spirito di Dirt trasfigurandolo completamente: dovrebbe essere questo l’obiettivo di ogni riproposizione ben riuscita. In tal senso, penso a Low Flying Hawks, Khemmis, These Beasts, Howling Giant e The Otolith. Una band metal trova negli Alice In Chains un concetto di durezza che non deriva dalla compressione delle chitarre, dalle urla del vocalist o dalla batteria trigger, ma da un’introspezione che sa guardare nell’abisso dell’animo umano senza vertigini né tremori e sa renderlo attraverso soluzioni sonore eterogenee, che rispondono all’urgenza espressiva e non a una gara verso il picco di decibel più estremo o allo sfoggio tecnico fine a se stesso.
Se io dovessi spiegare a un adolescente con un trucchetto come “il rock” (dammela buona) sia cambiato dagli Ottanta ai Novanta, direi che chi si chiamava Alice N’ Chains e diventò Alice In Chains. Io credo sia molto simbolico. Tu che ne pensi di quel cambio di nome, che in qualche modo emerge dal titolo del libro?
Bravo, hai già risposto al meglio! La prima ragione sociale risentiva dell’influsso dei Guns N’ Roses, infatti, che erano la new sensation per eccellenza mentre i nostri eroi si stavano facendo le ossa; ma anche – musicalmente parlando – del glam metal losangelino e dell’hard rock di fine anni Settanta/primi Ottanta. Layne Staley era ossessionato dai Mötley Crüe, tanto da scegliere Thomas come secondo nome in onore di Tommy Lee, quando ventunenne andò in tribunale a cambiare le sue generalità. Senza tralasciare che gli Sleze/Alice N’ Chains avevano in repertorio i brani di Nikki Sixx e soci ma anche di altri miti dell’epoca. Jerry Cantrell, del resto, non ha mai fatto mistero di venerare i Van Halen, così come gli Aerosmith restano fra i favoriti nel Nord-Ovest. I media angloamericani, poi, giocarono con le solite rivalità che amano inventarsi pur di vendere: “I duri e puri del grunge contro i superficialotti di Los Angeles!”. C’era un fondo di verità in questo ma – in realtà – molti musicisti da entrambe le scene si rispettavano e frequentavano, per quanto io sia d’accordo nel considerare necessario e salutare quel cambio della guardia, perché il rock stava diventando troppo caricaturale e sempre più distante dal suo pubblico.
Domanda superleggera, se no ti rifaccio scrivere un libro. Un genere di successo scatena clonazioni, anche nell’underground. Bush, Silverchair, Creed… so di gente che li odia ancora oggi. Le riviste volevano i nuovi Nirvana, i nuovi Pearl Jam… Chi furono i cloni degli Alice? I Godsmack? Troppo facile?
Sì, troppo facile! È palese, però, quanto lo stile canoro di Layne Staley abbia fatto scuola, senza generare però altri capiscuola. Sully Erna è bravo, ci mancherebbe, ma né lui né altri possiedono quella grana vocale particolare che fa trasparire in modo reale il sentimento del vissuto, che ha fatto di Layne Staley un vocalist inimitabile per via della qualità consolatoria della sua voce. Per quanto mi riguarda, quell’interiorità lacerata ed espressa in modo empatico attraverso il canto io la ravviso in proposte lontane da Mad Season ed Alice In Chains: come il cantautorato low-fi di Elliott Smith e Sparklehorse o l’esistenzialismo elettrico e titanico dei The God Machine… Ok, è vero, me ne rendo conto: anche questi artisti non ci sono più! Forse, però, oggi manca proprio quel modo di sentire la vita e, di conseguenza, di renderlo in musica; perlomeno nel rock. Gli epigoni sono il risultato di un meccanismo vecchio quanto il commercio ed esasperato dall’industria discografica: se un prodotto funziona, bisogna replicarlo al massimo. Soprattutto quando là fuori c’è un pubblico affamato di sonorità del genere. Fu ciò che accadde dopo il boom del grunge, che si spense troppo presto per le ragioni che conosciamo ma lasciando “orfano” uno stuolo numerosissimo di fan, che poi si lanciarono su gruppi più o meno costruiti a tavolino. Ciò non toglie che qualcosa di buono sia emerso anche da alcuni imitatori – tipo quelli che hai citato – dato che parliamo di formazioni multiplatino e vincitrici addirittura di un Grammy Award, come i Creed. Personalmente, ritengo che con l’ultimo The Kingdom i Bush dimostrino di essere più validi oggi che ai tempi e che i Silverchair siano entrati in stand-by sul più bello, proprio quando iniziavano a essere peculiari; mentre i Creed – pur sottoscrivendo le critiche che gli vengono mosse, in particolare verso le tematiche da omelia ecclesiastica – hanno portato a casa almeno un paio d’album con spunti interessanti.
Altra domanda leggera: è una mia impressione da lettore o sei parecchio innamorato dei Mad Season?
Li ritengo il vertice artistico di Layne Staley, come lui in persona aveva avuto modo di affermare. Ne andava parecchio fiero, mentre non provava più lo stesso verso gli Alice In Chains. Di conseguenza, mi è venuto naturale dare così ampio spazio ai Mad Season, anche perché tutti gli autori che mi avevano preceduto – per quanto statunitensi – avevano solo sfiorato l’argomento, mentre io l’ho messo al centro del lascito di Staley e del mio volume. Devo ringraziare il suo miglior amico, Johnny Bacolas, che viveva con lui proprio in quel periodo e che gestì quasi da suo assistente personale sia il lavoro di Layne per Above sia quello per Tripod, perché mi ha rivelato tanto.
Un’ultima curiosità: quando all’epoca hai capito che un ciclo si era concluso, cosa ti sei messo ad ascoltare?
Inizialmente, sono tornato al rock con cui ero stato tirato su ma, stavolta, con una maturità ovviamente diversa e cogliendone la reale portata: Bob Dylan, The Who, Beatles, Led Zeppelin, Rolling Stones… Poi ho definitivamente abbracciato, anche come musicista, quanto di più lontano dal mainstream: Fugazi, The Jon Spencer Blues Explosion, Slint, Jesus Lizard, i miei concittadini Uzeda… Insomma, l’indie rock più votato all’urgenza espressiva che non al ritornello canticchiabile o al singolo di successo e che – in ogni caso – aveva avuto un’influenza enorme su tutto il rock alternativo, grunge in primis. Senza dimenticare, per quanto possa suonare paradossale, che non avevo mai rinnegato il rock contemporaneo che stavo ascoltando all’avvento del Seattle Sound, seppur lontano dallo stesso o agli antipodi: Metallica, Guns N’ Roses, Motley Crue, Pantera… Sono sempre stato un fruitore inclusivo e non esclusivo: escludo dal mio stereo solo ciò che non mi piace, me ne frego bellamente di chi pontifica a parole sull’“onestà” e la “purezza” di certe proposte musicali. So per esperienza diretta, infatti, che non esistono artisti che intendano restare inascoltati; chiunque salga su un palco lo fa per avere un pubblico. Poi è assodato che c’è chi segue un percorso esclusivamente alle sue condizioni e contempli – di conseguenza – un riscontro di nicchia al successo di massa; e c’è chi, invece, vuol diventare il più grande di tutti e sposa anche i dettami più furbi, ma ciò non conduce necessariamente a produrre musica “commerciale”. Che significa, poi? Tutta la musica è commercializzata! Gli artisti si evolvono e cambiano, come le persone che sono e come la maggior parte di noi; penso al mio amato Nick Cave: agli inizi era per pochi e quasi spaventava i non avvezzi a quelle sonorità aspre e apocalittiche; poi è diventato una sorta di crooner sui generis che trova il plauso anche degli ascoltatori che una volta lo detestavano.