SEABUCKTHORN, A House With Too Much Fire
La stessa grandeur emotiva sprigionata dal violoncello intimo e desolante di Richard Skelton: come isolarsi in paesaggi sconfinati, a distanza di chilometri da ogni altro essere umano. Sono le prime impressioni date dall’ascolto di A House With Too Much Fire, nono album del chitarrista e compositore inglese Seabuckthorn, al secolo Andy Cartwright, uscito a giugno grazie alla co-produzione tra Bookmaker Records & La Cordillère. L’uomo lavora principalmente con chitarre resofoniche a sei e dodici corde, suonate con la tecnica del fingerpicking oppure in glissando o con l’archetto, isolate dal resto o più spesso stratificate con delicatezza, velo su velo. Almeno per l’occasione, entrano saltuariamente in gioco un clarinetto, un banjo e addirittura un non meglio specificato sintetizzatore.
Seabuckthorn, che si è da poco trasferito a sud delle Alpi, sa il fatto suo e lo dimostra l’eterogeneità della sua proposta. Peccato che A House With Too Much Fire, messo a confronto con il precedente Turns uscito l’anno scorso, suoni sin troppo dispersivo: è come se mancasse un elemento di coesione, qualcosa di necessario quando si tratta di ibridare mondi così lontani, ovverosia le sorgenti folk di questa musica in fin dei conti acustica e strumentale e, dall’altra parte, il continuo trasfigurare, un rifarsi alla creazione di atmosfere, di ambienti, di paesaggi. A House With Too Much Fire divide quasi nettamente queste due facciate e in questo modo fa perdere la bussola. Intendiamoci, nessuno dice che questo sia un problema o un vizio di forma, però è forse più divertente esplorare la musica di Cartwright al fine di estrarne le fonti, i confini auspicabilmente abbattuti, le frontiere potenzialmente valicabili. Così uno, specie negli arpeggi di “It Was Aglow” e di “What The Shepherds Call Ghosts”, può sentirci l’impronta ineludibile di John Fahey e Robbie Basho, quindi immaginare se stesso sparire nelle lande desolate e tra la polvere desertica del lontano Ovest, oppure nel verde degli Appalachi, o ancora su montagne dalle altezze vertiginose; può avvertire la giusta dose di distacco data da una dimensione quasi zen, orientale, o comunque non occidentale; e poi, di volta in volta, scorgere vaghi accenti canterburyani, profondità e malinconie da compositore modern classical (le due tracce poste in chiusura, ma non solo) ed estratti che sembrano lo score di un film nuovo-western altrimenti musicato da Morricone.
Stando così le cose, in attesa del prossimo disco di Seabuckthorn sarebbe interessante capire come questo universo di influenze e di idee sparse (forse un po’ troppo) si presenti dal vivo…