SCOTT KELLY
Milano, Circolo Arci Magnolia, 17/1/2018. Le foto sono di Antonio Cassella.
Vedere Scott Kelly dal vivo è sempre un’esperienza intensa e travolgente.
Ogni volta che ho avuto occasione di assistere a una sua performance con i Neurosis, ho avuto la sensazione di venire travolto dalla sua intensità, dal suo dolore, come se il suono violento e ruvido della sua Les Paul venisse generato direttamente da quei sentimenti oscuri e inquieti che agitano i testi delle sue composizioni.
Non vedevo l’ora, quindi, di trovarlo in un contesto che, apparentemente, sembrava posizionarsi agli antipodi, andando a pescare nelle forme della musica acustica minimale (una chitarra, una voce, poco più), ma che, una volta salito sul palco e attaccata la prima pennata di “Push Me On To The Sun”, fa intendere d’essere tagliato dalla stessa stoffa riflessiva, introversa e sofferente che caratterizza l’interezza dei suoi lavori. Una scaletta che ripercorre i tre album solisti realizzati nel corso dell’ultimo decennio, con una citazione dei suoi Shrinebuilder (“We Let The Hell Come”) e due tributi, rispettivamente a Neil Young (“Cortez The Killer”) e a Townes Van Zandt (“Tecumseh Valley”) in un’atmosfera intima e semplice. Silenzio, contemplazione e rispetto per quanto avviene sul palco del Magnolia in questa sera di gennaio, interrotti solo alla fine di ciascuna canzone per tributare il giusto calore e ringraziamento a un artista che, in qualsiasi circostanza, riesce ad essere comunicativo ed empatico come pochi.
Grazie alla disponibilità di Magnolia, al team di Rarely Unable e Asgar di My Proud Mountain Prod, è stato possibile incontrare Scott prima del suo concerto.
Lo trovo seduto nel backstage, in un momento di calma prima di cena; mi saluta, mi invita ad entrare e mi offre da bere con un’ospitalità naturale e rara. Mi siedo davanti a lui e iniziamo quella che sarebbe stata una chiacchierata piacevole e d’ampio respiro, sfociata a volte in una spontanea risata, a volte nello sfogo stizzito per una realtà che, spesso, pare non voler girare per il verso giusto.
Come sta andando il tour e che sensazioni ti sta dando?
Scott Kelly: Il tour sta andando molto bene, tutte le date; mi piace moltissimo suonare con John (Judkins, Rwake, ex Today Is The Day, che lo accompagna in questo tour alla slide guitar, chitarra elettrica e voce, ndr) è un grandissimo strumentista, dotato di un gran gusto: sa come dare supporto alle canzoni, quando farsi notare e quando invece restare più nascosto. Abbiamo un’ottima alchimia, suoniamo molto bene insieme. Abbiamo iniziato a suonare per un paio di settimane verso marzo del 2017 e ci siamo subito trovati a nostro agio l’uno con l’altro, tant’è che tra qualche mese andremo in studio a registrare qualche canzone nuova.
È davvero un’ottima notizia, quando pensi che potremmo sentire del materiale nuovo?
Credo entro il 2018. L’anno scorso è stato pessimo per me e quindi non sono riuscito a scrivere musica, ma conto di recuperare in questi tempi.
Parlando del tuo progetto acustico, nel 2012 hai pubblicato un album con Wino e Steve (Von Till) di cover di Townes Van Zandt. Cosa rappresenta per te la musica country e quali sono le tue influenze principali?
Vedi, Townes Van Zandt per me è rappresenta un po’ quello che i Joy Division hanno rappresentato per i Neurosis. La sua musica è profonda e onesta, quando suonava riusciva a mettersi a nudo di fronte all’ascoltatore in maniera diretta e naturale, ed è una maniera di far arte che mi ha lasciato senza parole. Quello che faccio nei miei set acustici cerca di seguire quella linea minimalista, a differenza, magari, di quello che rappresentano i live dei Neurosis, in cui ci sono molti brani molto più complessi e arrangiati. Penso che entrambi questi lati espressivi siano emotivamente forti e sinceri, sono come due facce di una medaglia, coesistono: da una parte c’è la cacofonia, il caos, la potenza, e invece dall’altra parte c’è più intimità, calma e riflessione.
La musica di Van Zandt è per te quindi un vero e proprio punto di riferimento imprescindibile. Come sei venuto a conoscenza delle sue opere e della sua storia?
Verso la fine degli anni Novanta, un mio amico mi passò un cd con delle canzoni di Townes. Non l’avevo mai sentito prima, non in modo intenzionale, avevo giusto ascoltato qualche volta alla radio “Poncho And Lefty”, solo perché credo sia il suo pezzo più famoso. Fu uno shock scoprire un simile artista e vedere come fosse sempre vissuto nell’ombra, pur divenendo un vero e proprio punto di riferimento per moltissimi altri musicisti country. Era così puro nella sua maniera di scrivere, nel suo modo di presentarsi; se guardi dei video delle sue performance live, ancora adesso puoi notare come fosse sempre aperto, vulnerabile e sincero davanti al suo pubblico, specialmente nelle occasioni in cui si presentava da solo sul palco. Ha cambiato davvero tutto per me.
La cosa curiosa di Van Zandt è che, mentre era vivo, il pubblico non l’ha tenuto in grande considerazione, mentre gli artisti, gli altri cantautori e gli addetti ai lavori lo ritenevano un vero e proprio punto di riferimento.
Sì, sembra fosse proprio così, dopotutto anch’io l’ho scoperto solo alcuni anni dopo la sua morte. Sai, una volta ho parlato con un giornalista tedesco che intervistò Townes tre volte quando venne in tour in Europa e disse che quando veniva qui da voi aveva quasi più seguito di quanto ne riuscisse a ottenere negli States. Voglio dire, comunque si parla di numeri bassi, un concerto con duecento spettatori, per lui, era già un successo di audience. Credo ci siano artisti che hanno il compito di essere superstar e rappresentare qualcosa, di diventare un’icona per un gran numero di persone e poi, ci sono musicisti come Van Zandt, che scrivono musica onesta e desiderano solo esprimersi, mostrarsi per come sono e per quello che hanno dentro, anche se questo vuol dire rivolgersi ad un numero molto minore di persone. Certo, questo non ti rende la vita più facile.
Cosa vuol dire suonare musica onesta per te? Come funziona la dimensione acustica nelle tue canzoni?
Per me suonare in questo modo costituisce una sorta di meditazione. Sentire ogni nota, ogni parola, essere lì, presente in quei momenti e sentire il suono che si proietta al di fuori di te, lasciare che risuoni nella stanza, che il pubblico entri davvero in contatto con il tuo linguaggio. Avere solo pochi elementi essenziali con cui esprimermi mi aiuta enormemente a concentrarmi su quello che effettivamente è importante durante un’esecuzione.
Al momento hai diversi progetti paralleli all’attivo. Come decidi di gestire le tue collaborazioni con altri artisti?
Dipende, ogni collaborazione è un’esperienza a sé stante. Fondamentalmente, mi piace lavorare con persone che stimo e rispetto, anche se in apparenza possono sembrare distanti da quello che compongo io. I Mastodon, gli Amenra e gli Yob mi hanno chiesto di collaborare con loro, e al tempo stesso io avevo una fortissima motivazione nel portare avanti questi progetti, perché credo che quel che fanno e come lo fanno sia incredibilmente importante e mi piace. La stessa cosa vale per come son nati i Corrections House, che è forse il progetto più strano che io abbia. Nacque tutto quando io e Bruce (Lamont) ci trovammo a condividere un tour in cui suonavamo set separati. Parlammo, ci interessammo l’uno della musica dell’altro e decidemmo di iniziare a sviluppare delle idee, poi arrivò Mike (Williams, EyeHateGod) e propose di aggiungere del parlato recitato, quindi si unì a noi. Dopo qualche tempo Sanford (Parker, Buried At Sea, Mirrors For Psychic Warfare) sentì il materiale su cui stavamo jammando e buttò lì l’idea di strutturarlo meglio e farne dei pezzi veri e propri, al che ci guardammo e dissi “Fanculo, facciamolo!”. Da lì abbiamo registrato un singolo, poi un sette pollici, fatto trenta giorni di tour. Così ci siamo lanciati in un’avventura, andavamo da un locale a un altro, stipati in quattro dentro un’auto piccolissima, suonavamo davanti a pochissime persone e tutto quello che avevamo erano in buona sostanza due pezzi sui quali improvvisare circa un’ora di concerto! Insomma, dovevamo necessariamente inventarci qualcosa e questo arrivava in maniera spontanea e diversa volta per volta, a seconda degli stimoli che portavamo nel progetto. È stato un processo estremamente anarchico e malleabile, libero: pensa che, dopo dieci giorni di tour, avevamo iniziato ad avere un’idea più o meno chiara su come strutturare questa o quella sezione, così poi, quando siamo tornati dall’esperienza dal vivo, abbiamo potuto fissare le varie forme arrangiando un album, che, di fatto, aveva preso forma sulla strada, sera per sera. Paradossalmente è stato molto più semplice scrivere in questa maniera, più fresco, spontaneo. Con Sanford ho successivamente sviluppato i Mirrors For Psychic Warfare, per i quali avevamo scritto brani a sufficienza per due album, uno dei quali è già uscito, mentre l’altro vedrà la luce quest’anno. Devo dire però che, sebbene la mia prima collaborazione sia stata con i Mastodon, fu grazie agli Shrinebuilder che mi si aprì un vero e proprio mondo. Capitò tutto in modo molto naturale, Al (Cisneros – Om, Sleep) mi chiamò e mi disse che aveva un’idea per un gruppo con Wino e Dale (Crover – Melvins, Porn), in cui voleva che io suonassi la seconda chitarra. Voglio dire, avrei mai potuto rifiutare? Ovviamente no.
Collaborare è stata una necessità che hai sentito ad un certo punto per esprimerti al di fuori dei Neurosis o è semplicemente qualcosa di spontaneo?
Non so che cosa facessi prima di iniziare a sviluppare collaborazioni, ma una cosa è certa: una volta iniziata la prima esperienza, poi è stato tutto un continuo scorrere e tirar fuori ed esternare, come se avessi già tutto dentro di me e non dovessi far altro che creare o cercare l’occasione giusta per mettere le idee in musica, farle diventare canzoni e suoni. Molto probabilmente cambierà qualcosa a un certo punto, ma devo dire che sono quasi dieci anni che collaboro con diversi artisti e sta funzionando. Al momento cerco di concentrarmi solo sui Neurosis, sulle mie canzoni da solista e sui Mirrors For Psychic Warfare. Sto lavorando a del materiale nuovo con i Mastodon che probabilmente vedrà la luce quest’anno, mentre non so di preciso quando riprenderò il discorso con i Corrections House, anche se credo che lo riprenderemo prima o poi. Oh, e poi ho un progetto, Absent In Body con Colin (H. Van Eeckhout) e Mathieu (J. Vandekerckhove) degli Amenra, con i quali registrerò un album proprio durante i giorni di pausa di questo tour europeo che sto portando avanti ora.
Una domanda che non c’entra molto con la musica in apparenza, ma che credo sia imprescindibile dati i tempi che corrono e quello che ritieni importante come musicista e come persona: com’è, oggi, vivere negli Stati Uniti, per te?
Non lo so. È davvero una merda, in molti sensi. Voglio dire, sicuramente ci sono posti incredibilmente peggiori in cui vivere rispetto agli USA: abbiamo l’acqua corrente, negozi pieni di cibo e merci, benzina per le nostre auto, insomma, siamo assolutamente una nazione da Primo Mondo. Ciononostante, per noi persone della classe lavoratrice, per noi che non siamo ricchi secondo gli standard nazionali, è sempre più difficile pagare le bollette, non abbiamo più assistenza sanitaria e poi abbiamo… (sbuffa sconsolato, ndr) abbiamo questo cazzo di personaggio che, mio dio, al solo pensiero c’è da impazzire. Voglio dire, è una vera disgrazia, ogni giorno fa qualcosa di imbarazzante per l’intera popolazione e quant’è peggio è che lo fa apposta, per costruirsi un’immagine. È semplicemente uno stronzo totale, è completamente sbagliato. Ci sono delle persone che hanno dei lati oscuri nella loro vita, che sono diametralmente opposte a me e ai miei principi, intolleranti, malvagi secondo la mia etica; ho incontrato gente così eppure sono comunque riuscito a trovare una piccola parte di loro che potesse non dico giustificare questi loro atteggiamenti, ma quanto meno dar loro una parvenza di speranza, di redenzione. Ma in questo tizio, non vedo assolutamente nulla di buono. È un fottuto razzista, sessista, omofobo… un fottuto pezzo di merda, davvero, è il peggio che potesse capitare. Mi ci è voluto un bel po’ di tempo anche solo per accettare il fatto che fosse stato eletto, e non ti dico per mia moglie, sono dovuti passare credo due o tre mesi prima che si riprendesse, voglio dire, per lei è anche peggio, visto quello che Trump dice e fa alle donne. E la cosa peggiore è che qualunque cosa sia stata detta e fatta da questo stronzo non è comunque bastata per evitare che venisse votato ed eletto. È come se metà del Paese fosse impazzito e avesse deciso di rendersi connivente con le idee che rappresenta.
Credo che questa situazione vada a stridere in maniera tremenda con la dimensione comunitaria in cui vivi da anni, quando hai deciso di trasferirti nei boschi dell’Oregon.
Assolutamente sì, fa ancora più male. E quello che è peggio è vedere le persone che ti stanno attorno che, spinte dalla disperazione e dalle false promesse, hanno votato Trump, perché pensavano che potesse effettivamente rappresentare una soluzione. Vedi, il tema del razzismo e della convivenza di etnie diverse è ancora fortissimamente sentito in America e non mi stupirebbe vedere che queste elezioni non siano state influenzate da una sorta di ritorsione, di ritorno di fuoco causato dall’aver avuto un presidente di colore e dall’orientamento politico completamente opposto a quello di Trump.