Scoprire Martin Bartlett
Quelle raccontate da etichette come Arc Light Editions sono spesso storie di outsider: l’atto di ristampare o di mettere insieme una compilation, magari di vecchio materiale rimasto inedito, sta infatti anche nella narrazione in sé, nell’interessare chi ascolta alle vicende di persone che per un motivo o per un altro sono rimaste in ombra, anche se forse non lo meritavano. C’entra anche il desiderio del curatore di “riabilitare” qualcuno o di trovare un nuovo percorso nel passato (con l’inevitabile rischio di forzature antistoriche).
Martin Bartlett sarebbe uno di questi eroi di cui nessuno – o quasi, a dire il vero – aveva ancora cantato le gesta. Nato nel 1939, studia sia in Inghilterra, sia negli Stati Uniti, anche sotto la guida del gigante Terry Riley. Diverse fonti, etichetta compresa, ci dicono che apprende anche da Pauline Oliveros, John Cage e David Tudor, e inoltre che collabora con Don Buchla e inventa un suo sintetizzatore modulare. Si occupa di musica elettronica, insomma, e pare sia tra i primi a pensare che un misto di programmazione e casualità possano – forse un giorno non troppo lontano, vero Holly Herndon? – permettere alle macchine di comporre da sole (il che, visti i suoi maestri, non mi sorprende). Bartlett non è solo pioniere in questo senso, ma porta (di nuovo, viste le sue influenze, non è impensabile) pure il gamelan in Canada, dove insegna alla Simon Fraser University e dove assieme ad altri artisti nel 1973 fonda un centro attivo tuttora, il Western Front di Vancouver, uno spazio pensato per giovani che vogliono proporre le loro creazioni visive e musicali, specie se “nuove”. Muore nel 1993, dopo aver contratto l’AIDS. Il regista sperimentale Simon Fowler nel 2017 incentra su di lui un documentario (“Electro Pythagorus”), facendo parlare lettere, musica, foto e filmini in super8: tutto materiale creato da Bartlett o su Bartlett, per un collage che non segue il tempo come se questo fosse una linea retta, ma è piuttosto una libera associazione trasversale che lascia emergere le sue vicende personali (la sua omosessualità, ad esempio, che più comunicati stampa legati a questo processo di riscoperta artistica considerano motivo di emarginazione) e il fastidio di un uomo – per altri versi giocoso – che non si sente abbastanza riconosciuto come artista, laddove pare che il suo contributo positivo alla cultura e alla sua circolazione sia ampiamente chiaro già ai suoi contemporanei.
Due le raccolte stampate da Arc Light: la prima è Anecdotal Electronics: Live Experiments & Other Recordings, che contiene sketch e divertissement dal vivo (in “Three Songs featuring Dan Shiedt + Doug Collinge” presenta il pezzo durante il pezzo stesso, e lo fa cantando volutamente male), e anche un brano a quattro mani con Don Buchla, imperdibile per i “sognatori di cavi” là fuori; la seconda, intitolata Ankle On: Electronic & Orchestral Works, a mio avviso più intrigante, contiene tre tracce primarie e aliene (sembra di ascoltare gli effetti sonori di uno dei primi telefilm di fantascienza o di sentire uno dei primi videogiochi per computer), una delle quali combinata con le influenze asiatiche delle quali scrivevo poco fa, alle quali si aggiunge un’altra (“Helix”) orchestrale e stortissima, che lo Zeitkratzer Ensemble potrebbe aver suonato nel tentativo di rifare i Whitehouse.
In un periodo in cui il revival della “prima elettronica” ha stufato, ma in cui è ancora forte il desiderio – anche quello di alcuni producer contemporanei – di capire quella fase storica, soprattutto Ankle On può essere istruttivo e d’ispirazione.