SAULT, Untitled (Rise)
Viviamo in un’epoca in cui mostrarsi è l’imperativo dominante, anche se i contenuti mostrati sono il più delle volte inconsistenti o inesistenti. La paura di essere facilmente dimenticati anche dagli amici più stretti ci porta a far vedere e farci vedere, a raccontare le cose più stupide: «se ci avessero detto che un giorno avremmo passato il tempo a guardare video di gente in pantofole, al mare, mentre si lava i denti, ci saremmo messi a ridere forte», per citare il post scritto da un amico qualche tempo fa. Il mistero, col suo fascino, si “manifesta” sempre meno, perché tutto deve essere alla luce del sole, altrimenti è sicuramente un complotto o solo una debole operazione di marketing.
Vi ricordate i Radiohead quando qualche anno fa cancellarono qualunque loro traccia precedente dai profili social? Un’azione che fece molto rumore e, al netto della loro popolarità, funzionò non solo per quel comportamento in controtendenza, ma perché messa in atto da una band che ha sempre pensato prima ai contenuti (a prescindere dalla loro musica, che può piacere o meno, la loro carriera è stata costruita su basi solide fatte di materiale concreto).
Forever Living Originals è l’etichetta dietro questo progetto nato discograficamente nel 2019 e che ad oggi conta già quattro pubblicazioni: l’ultimo, Untitled (Rise), uscito nel settembre 2020. Dalla comunicazione alle immagini, ogni cosa che ruota intorno ai Sault suona come un atto di rivolta e, come in ogni rivolta che si rispetti, gli attori restano nell’ombra mentre consegnano alla storia il loro messaggio e le loro azioni risuonano più forti di qualunque messa in scena creata per le telecamere di turno. Tutto è ridotto al minimo perché la concentrazione finisca totalmente sulla musica e sul messaggio.
La matrice sonora che indaga ogni aspetto della Black Music fa di questo quarto disco un’importante dichiarazione di intenti. L’andamento musicale di tutto l’album poggia soprattutto sui ritmi tribali (“Strong”, “Street Fighter”, “The Beginning And The End”, per citarne alcuni), radice di molti dei generi musicali conosciuti oggi (praticamente tutti): evidente è come il loro utilizzo e composizione differisca totalmente da produzioni discografiche commerciali che strizzano l’occhio a quei ritmi esclusivamente perché oggi è moda (da dove credete arrivi “Jerusalema”, il tormentone da classifica di quest’estate?). D’altronde l’afrocentrismo è un tema su cui si dibatte molto negli ultimi due anni, essendo l’Africa ritornata agli onori della cronaca per diversi motivi: lo sfruttamento sconsiderato delle risorse, le crociate contro gli sbarchi ma anche un rinnovato approccio solidaristico nei confronti di un Continente che fornisce tanto al mondo industrializzato senza avere lo stesso trattamento in cambio.
Con l’ultimo disco dei Sault ballerete, vi emozionerete, riprenderete fiato ma soprattutto verrete investiti dalla forza di una comunità rappresentata da un manipolo di artisti e producer che ci mettono la loro esperienza ma non la loro faccia, non per chissà quale pantomima, ma perché i volti sono quelli di chiunque ogni giorno vive il disagio dell’essere minoranza, dell’oppressione e dell’emarginazione. In copertina non c’è più il pugno chiuso di “Black Is” ma due mani giunte che invocano la forza della comunità: “we will not let our minds be used in this wicked world, we will band together, we will make the human family one once more” (“The Beginning & The End”), “Rise, baby, rise, keep your eyes clear, keep your heart open today as you navigate your world, It’s time to rise” (“Rise”).