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SALÒ, S/t

Pier Paolo Pasolini fu nei primi anni Settanta l’iniziatore involontario di tutto un filone di film a sfondo boccaccesco passato alla storia come genere “decamerotico”: in soli due anni, fra il 1972 e il 1973, uscì in Italia quasi una quarantina di titoli che, sull’onda dell’inaspettato successo che ebbe la cosiddetta “trilogia della vita” pasoliniana, proiettavano il tema dell’eros, al centro della coeva rivoluzione sessuale, in un cinema ambientato nel basso medioevo, essenzialmente una versione pecoreccia dei Racconti di Canterbury e delle novelle del Boccaccio. Mentre il poeta di Certaldo prendeva le mosse per il suo capolavoro dall’epidemia di peste nera che flagellò l’Europa nel XIV secolo, Salò è invece un progetto che nasce a cavallo di un’altra pandemia – a noi ben più familiare – con una serie di eccentriche performance in costume, online e dal vivo, in cui il riferimento è a un altro Pasolini regista, quello della sua opera ultima in cui si mette in scena il potere con i suoi eccessi, all’interno peraltro di uno schema narrativo che rimanda anch’esso al Decamerone. Nomi più o meno noti della Roma sotterranea come Toni Cutrone, Stefano Di Trapani, Emiliano Maggi, Cosimo Damiano e Giacomo Mancini danno sostanza a quello che appare e suona come un minestrone di elementi dentro e fuori dal tempo e dalla storia, riferimenti eterogenei e attitudine carnascialesca. Medioevo, Rinascimento, Barocco, psichedelia, Repubblica Sociale, cinematografia scollacciata, prog-rock: proviamo a fare ordine. Si va dal folk dopato de “La Ballata Delle Mosche” (per intenderci siamo più dalle parti di Folklore Tapes che da quelle di Nick Drake) al Rinascimento tinto di giallo di “Faccio L’Amore A Cavallo Di Un Asino”; nel mezzo ci sono riletture della library più inquieta (“Malizia”), una coppia di brani dedicata ai tritoni che ci rimanda a quel cinema boccaccesco di cui sopra, fra stregonerie e magia sessuale, nenie e depravazione (mi sovviene il Reverberi di  “Riti, Magie Nere E Segrete Orge Nel Trecento”), ammiccamenti al versante più psicotropo del rock progressivo anni Settanta con “Pompei”, un distillato di Goblin, e i quattordici minuti di “Denti Neri” con la sua coda ambient-noise, la danza esorcistica di “Indiavolata Innamorata”. A tenere tutto insieme sembra essere una ricerca insistita del perturbante in senso freudiano, in cui elementi pur familiari vengono raccolti in modo da risultare estranei: uno specchio in cui non riusciamo a riconoscerci, e ciò ci disturba alquanto.