SALLY DIGE, Holding On
La forza delicata di Sally Dige risiedeva nell’ammorbidire panorami industriali sintetici, spennellare con tinte pastello larghe campiture grigie e architetture scarne. Ciò che oggi viene rispolverato col nome di minimal synth wave, e che all’epoca caratterizzava progetti come i vari Oppenheimer Analysis, Hard Corps, Intelligence Dept. e moltissimi altri, si poteva udire nel debut Hard To Please, arricchito da una produzione vocale raffinata e un andamento della metrica dei brani che andava a braccetto con il pop (da segnalare anche il suo progetto Cult Club assieme a László Antal dei Sixth June, dove la Jørgensen abbraccia più volentieri i Cocteau Twins e un mondo più etereo ma non meno melodico).
Holding On, su DKA & Avant! Records, arriva due anni dopo Hard To Please con più ampie scelte di strumentazione e gamma sonora. La sezione ritmica rimane sempre marziale e minimal, ma i synth in superficie si gonfiano di arpeggiatori, si fanno carichi di New Order con la voce che si attiene ancora perfettamente alla logica strofa-strofa-ritornello-strofa.
Il singolo “Holding On” mostra una giacca alla Sex Pistols e uno charme alla Bryan Ferry, mentre la copertina dell’album cita Island Life di Grace Jones. Androginia, eleganza e tormento: questi sono gli epiteti del prodotto. Sally detiene il totale controllo dei brani, segnandoli per tutta la loro durata e rendendoli più facilmente assimilabili che mai; chiude gli occhi dell’ascoltatore, facendolo sognare, mentre intorno a lui i palazzi crollano e la terra trema, sussurra parole dolci mentre lontano scoppiano le bombe. “Emptiness” sa della più storica e manchesteriana “State Of The Nation”, la fine di “Sail To Me” profuma quasi di rugiada dopo le rigide ombre della notte, la parte centrale di “This Life” ci fa sbirciare perfino una derivazione dream-pop che presto verrà risucchiata nel gorgo dei synth e dei riff principali. Panorami post-apocalittici, sterili e freddi, sono ornati da delicate venature viste prima solo nei Propaganda, un incrocio calibrato tra Boy Harsher e Molly Nilsson, meno marziale dei primi (anche se nel remix di chiusura ci avviciniamo parecchio), suadente e più trasognato della seconda.
Holding On ha una notevole componente dance, quella da goth-club chiaramente, un po’ da Batcave e un po’ da Taboo. Anche se ogni tanto possono emergere venature retro-wave (“I Can’t Be”), tutto rimane congelato all’interno del mondo goth, ma qualcosa sta iniziando a sciogliersi sin dall’album di esordio, proprio grazie al tenue, tiepido ma continuo cantato che emerge limpido con pulsanti vibrazioni in un castello di brina.