SAISON DE ROUILLE, Caduta Dei Gravi
I Saison De Rouille sono musicisti di sangue nero, vedi alla voce “Filth”. Formazione aperta, due fissi più ospiti, per un album che porta quel titolo italiano presumibilmente perché la citazione “colta” va da dio per descrivere il tipo di musica suonata: gravità è il perno di tutto il disco, e in tutti suoi possibili significati. I testi, in francese e in tedesco, sembrano uno spoken word del primo Broadrick (dagli Swans ai Godflesh il passaggio è naturale, no?) e – forzando molto, però – possiedono qualche cosa della teatralità di Alan Dubin. Il contenuto apparentemente ha a che fare sempre con la prostrazione, sia fisica sia psicologica, e descrive un fallimento individuale, ma anche collettivo, con l’io narrante che letteralmente striscia e si trascina in un mondo spopolato e ostile.
L’integrazione tra il clangore del suono-Swans e violino è talmente indovinata che sembra tutto normale e scontato, ma forse ciò succede perché a colpire è anzitutto la bravura con cui i Saison De Rouille hanno scoperto la formula magica per cui la musica di Filth non è rock, né industrial, né no wave o post-punk, piuttosto è – per rubare una loro immagine – un geyser de viscères: qualcosa di sentito, poco truccato con virtuosismi o con mezzi di produzione moderni, qualcosa insomma che preserva quell’autenticità che dovrebbe stare alla base di dischi così, questo almeno secondo il nostro filosofo di riferimento Gylve Fenris Nagell detto Fenriz.