SAINT VITUS, Saint Vitus
Il fatto che i Saint Vitus abbiano ripreso Scott Reagers in maniera definitiva (ufficializzando la dipartita di Wino) non è più un segreto da qualche anno a questa parte. Sebbene non avessero mai emesso un comunicato in cui confermavano la separazione col loro ex cantante dopo il suo arresto in Norvegia (per possesso di metanfetamine e nel bel mezzo del tour del 2014), le loro strade si erano divise, considerando la reunion dei The Obsessed. Dopo numerosi tour è arrivato il tempo per un disco nuovo, intitolato col nome della band, proprio come l’album d’esordio del 1984.
Il perché abbiano deciso di chiamare due uscite (per quanto molto distanti l’una dall’altra) allo stesso modo è un mistero ed è inutile fare paragoni. Il sound che troverete su questa nuova fatica in studio è quello che potete già immaginare: doom metal classico, con un Reagers in forma e il resto del gruppo a un livello molto buono. La produzione non è molto esaltante ma non è neanche da condannare, lo stesso si può dire del resto. A livello compositivo i pezzi vanno bene: il loro stile è sempre presente, ci sono dei brani buoni come “12 Years in The Tomb”, “Wormhole” e “Last Breath” e sono anche interessanti le divagazioni alla Black Flag in “Bloodshed”. C’è addirittura un pezzo totalmente hardcore, “Useless”, di un minuto e mezzo, che però – come suggerisce il titolo – lascia il tempo che trova. I punti più interessanti sembrano essere le sperimentali “A Prelude To…” e “City Park”. Questo però non vuol dire che il resto sia brutto, ma è molto poco ispirato.
Siamo di fronte a un album che non può essere bocciato perché non ha nulla di sbagliato nella sua essenza. È ascoltabile, su questo non ci piove, ma da una band che ha fatto Hallow’s Victim e Die Healing (oltre all’esordio omonimo già menzionato) uno vorrebbe dei pezzi più memorabili. Comunque i fan, per ora, non hanno gridato allo scandalo. Il fatto che sia tornato Scott Reagers fa poi molto piacere: live i Saint Vitus rimangono la leggenda che sono e nelle ultime scalette hanno inserito molti brani che con Wino non avrebbero potuto suonare (vedi “Burial At Sea”), quindi se vengono nella vostra città non avete nessun motivo per non andarli a vedere. Se siete dei die hard e non potete fare a meno di qualunque cosa col loro nome sopra, non rimarrete schifati scegliendo di comprare questo disco, basta non aspettarsi il capolavoro.