SabaSaba: weird dub
Concordiamo via Messenger un’intervista con Gabriele Maggiorotto e Andrea Marini, i SabaSaba. I due si presentano in collegamento video, ma da subito la tecnologia sembra esserci avversa: uno Skype che pare essere quanto di più antidiluviano possibile, la registrazione di Whatsapp che scompare nel nulla, l’impossibilità per lunghi tratti di riuscire a vederci di persona. Pare che il mondo a cui si ispira il loro ultimo album, Unknown City, un posto dove antichità e futuro si mescolano inesorabilmente, ci voglia mettere i proverbiali bastoni fra le ruote. Nonostante questo i temi, le personalità e i suoni che vanno a comporre Unknown City, uscito il 9 febbraio per Maple Death, riescono a farsi sentire forti e chiari. Da Torino, Andrea Marini e Gabriele Maggiorotto, SabaSaba, in conversazione con noi.
Salve Andrea, salve Gabriele, molto piacere! Iniziamo subito dal nome: SabaSaba a cosa si ispira? Sapendovi piemontesi, la mia prima opzione andava verso la gastronomia e lo sciroppo di mosto d’uva, ma non sono per nulla certo sia la via corretta…
Andrea Marini (synth, chitarra, elettronica, nastri): Ciao Vasco! Niente di tutto ciò… SabaSaba è una parola immaginaria che, anche se non ha un legame diretto con Sabba, voleva comunque avere una connotazione magica e in qualche modo ancestrale.
Unknown City, il vostro ultimo disco, è ispirato a un libro di China Miéville, “The City and the city”. Parla di popolazioni vicine eppure distanti, senza possibilità di comunicazione ufficiale. In che maniera avete pensato di trasferire queste dinamiche in musica? In che modo un’ispirazione può diventare una guida all’ascolto oppure una gabbia per l’ascoltatore?
Andrea: Forse l’ispirazione può essere entrambe le cose a un certo punto, ma non è mai stato quello il nostro intento registrando il disco. Quello che lega il disco al libro di Miéville è il discorso politico che porta avanti: queste sacche di resistenza attorno ad una situazione di incomunicabilità, questo inaridimento di contatti umani, questo irrigidimento della società in direzione di un controllo ipertecnologico, questo non potersi né vedere né sentire pur vivendo gli uni accanto agli altri ci ha colpito e spaventato, viste e considerate le analogie che possiamo fare con il mondo reale. Queste eterne periferie, questi scenari apocalittici di certa fantascienza che sono molto più vicini di quanto non si creda, sono temi che ci circondano e che elaboriamo attraverso SabaSaba. In aggiunta a Miéville sono molti i luminari che ci hanno ispirato, se pensiamo alla società del controllo: sono Gilles Deleuze (il suo “Sorvegliare e punire”) e Michel Foucault, riferimenti veri e propri. Impossibile poi non citare il “Panopticon” di Jeremy Bentham, controllo capillare sugli individui. Sono più elementi che, insieme a China Miéville, ci hanno trascinato nel gorgo che ha creato Unknown City.
Ascoltando i vostri dischi è inevitabile parlare di musica dub, genere immortale e infettivo. È presente nei SabaSaba come in Scorn, anche se in entrambi i progetti non c’è traccia di Giamaica. Chi vi ha contagiato col dub?
Gabriele Maggiorotto (batteria, percussioni, effetti, programming): Più che la musica, a interessarci è l’attitudine Dub. Il nostro Dub è quello di Horace Andy (Dance Hall Style è un disco che abbiamo consumato) e di Lee Scratch Perry, o di Augustus Pablo, quindi pura Giamaica. Ad interessarci del dub sono sempre state più le tecniche che il suono in sé, che infatti si è più spostato verso quanto accaduto in Inghilterra e la commistione con altri mondi. Ma il gesto artigianale del produttore, il ritagliare e il costruire dei brani partendo dal nulla è una cosa che appartiene fino in fondo a SabaSaba, di sicuro delay e riverberi vengono proprio da lì. Quindi Scorn solo in seconda battuta (non essendo un’influenza diretta) ma – benché non si veda troppo sole nella nostra musica – partiamo dalla Giamaica.
Il vostro dub, più che verso le profondità e ai tunnel cittadini, mi sembra spingere verso periferie illimitate, in una sorta di effetto Western mediorientale (che è come immagino io gran parte delle città futuribili). Nella tracklist del disco c’è una traccia intitolata “Ul Qoma” ed una “Besźel”, le due città protagoniste del libro di Miéville. Quale sarebbe la vostra location ideale per quest’album?
Gabriele: Per quanto riguarda la città diremmo Ul Qoma, non ci vedremmo a suonare a Besźel e non credo possa essere legale o fattibile. Visto il nostro intento, forse la location ideale potrebbe essere addiritura Orciny (la terza città, che, sempre nel libro, sembra vivere misteriosamente sul confine delle prime due, leggenda o realtà), anche se alla resa dei conti questa città fra le città è ben diversa dalle aspettative di chi la ricercava.
Giocando a carte scoperte, si sa che il disco prende le mosse da suggestioni fantascientifiche: niente futuri spaziali, ma presenti possibili. Se ascolto i synth, penso ai Portishead di Third, quindi a Carpenter e a colonne sonore sci-fi di una quarantina di anni fa. Anche qui: come è avvenuto il contagio?
Andrea: Hai azzeccato ogni riferimento. Adoriamo i Portishead e soprattutto quel disco, che ha un lavoro di produzione assolutamente stupefacente. John Carpenter da sempre è uno dei nostri fari. Amiamo la fantascienza anche se non in toto, ad esempio un autore come Asimov non ci appartiene, siamo più su un versante autoriale che abbraccia Stanislaw Lem e quel tipo di universo. Negli anni poi abbiamo imparato ad apprezzare sempre di più le colonne sonore, soprattutto quando queste si sono staccate dai mestieranti o dai musicisti profilati per la loro costruzione, aprendosi a mondi a noi più vicini. Se penso a quanto ha fatto Mica Levi con “Under My Skin” di Jonathan Glazer (film tra l’altro assolutamente stupendo) oppure alla musicista che si è occupata di “Chernobyl”, della quale faccio sempre fatica a ricordare il nome (si tratta di Hildur Guðnadóttir, violoncellista e compositrice islandese, ndr)… i risultati sono stupefacenti e alzano il livello di immagini e musiche. Il cinema è una grandissima fonte di ispirazione, pensiamo a registi come Pablo Larraín, Ari Aster, Robert Eggers e Yorgos Lanthimos, tutti presenti nell’immaginario di SabaSaba…
Quindi vi piacerebbe comporre una colonna sonora?
Gabriele: Sarebbe uno dei nostri sogni, assolutamente! Possiamo dare risalto a questa cosa, cercando di avvisare tutti i registi potenzialmente interessati…
Com’è il giro torinese? Molti nomi forti, almeno un paio di festival con buoni cartelloni come il “vecchio” Jazz is Dead! e il nuovo Burning Tower, a cui per non siamo ancora stati!
Andrea: Torino è sempre fertile. Il giro è composto dalla forte presenza di moltissimi artisti validi, in ambiti più disparati, dalla musica sperimentale alla techno, alla scena garage ed al rock’n’roll. Ha sempre avuto anche molti locali di musica dal vivo che, seppur colpiti e messi in ginocchio dagli anni di pandemia, garantiscono una programmazione molto peculiare. Poi dove non arrivano i locali arrivano le persone, con un insieme di proposte casalinghe molto ben studiate. Ci si conosce tutti ed anche se noi viviamo maggiormente in disparte, è bello sentirsi attorniati da colleghi di talento e da realtà simili.
Oltre a Beauchamp alle macchine e Nick Foglia al mix, troviamo anche Brian Pyle al master, che ho apprezzato parecchio nel suo lavoro come Junk DNA e che trovo abbia lavorato su Vilnius in maniera non dissimile da quanto abbiate fatto voi su Miéville. Avete avuto dei confronti in questo senso con lui?
Gabriele: Con Paul Beauchamp usciremo anche dal vivo come trio, sarà infatti il fonico ed elemento aggiunto nei concerti e si occuperà di dubbarci in diretta, visto e considerato il numero limitato di braccia che ci ritroviamo ad avere! Per riprodurre quanto ideato in studio il suo aiuto sarà fondamentale! Avevamo registrato con lui già il disco precedente, nostro esordio, e ne siamo sempre stati molto soddisfatti, visto che c’è anche un rapporto di amicizia, oltre che di stima reciproca, a legarci. Per quanto riguarda invece il legame con Brian Pyle è stato tutto farina del sacco di Jonathan Clancy di Maple Death, che più volte ha collaborato con lui per questioni di mastering. Noi lo conoscevamo come artista, avendolo ascoltato e visto più volte come Ensemble Economique, e da quanto ci è stato riferito si è fatto prendere benissimo dal nostro lavoro, trovando un legame con quanto portato avanti, cosa che non può che renderci felici!
Ho ritrovato sul vostro disco Jonathan Clancy, Francesca Marongiu ed Ambra Chiara Michelangeli, e credo che in Italia ci siano parecchie formazioni al momento che si muovono fuori rotta. Non riesco però mai a capire che tipo di riscontro, apprezzamento, risposta ci sia da parte della scena e del pubblico. Che tipo di accoglienza ed attesa state ricevendo o percependo con questo nuovo lavoro? Maple Death è una delle label grosse attualmente in giro: che tipo di prospettive avete?
Andrea: La cosa più bella è che le collaborazioni sono state molto spontanee, sia con i musicisti coinvolti che con gli altri attori, come i registi dei nostri due videoclip, Blak Saagan e Sara Bonaventura. Ambra ha lavorato su quasi tutti i brani ed è stata l’unica musicista ad essere passata con noi in studio, mentre a Jonathan, Francesca e alle Jerome abbiamo preferito piuttosto raccontare la storia del disco, questo spunto nato dal libro di China Miéville e la nostra riflessione politica su questa eterna periferia e questa incomunicabilità, lasciando poi a loro campo libero di intervento. Siamo stati molto sorpresi e felici di rilevare quanto pertinenti siano stati i loro contributi artistici! Per quanto riguarda il discorso della percezione e dell’allargare la propria audience: è un nostro preciso intento, non ci interessa rimanere nel medesimo circolino underground, ma vorremmo che quanti più possibile ascoltassero il nostro messaggio e venissero a conoscenza di questo. Maple Death sicuramente è l’etichetta giusta per questo, segue attentamente ogni passaggio, così come lo facciamo noi due, tanto che Jonathan ci descrive come dei perfezionisti per come seguiamo ogni fase del lavoro. A questo proposito, non avendola ancora citata, è indispensabile parlarti dell’autrice dello scatto di copertina (e delle altre immagini interne al disco): Sophie Anne Herin è una fotografa che adoriamo e siamo felicissimi di quanto ottenuto grazie al suo lavoro. Per trovare lo scatto giusto per la copertina di Unknown City siamo entrati in quella che era una vecchia officina, luogo nel quale le piante ormai stavano riprendendo il sopravvento sul cemento, trovando il giusto momento per lo scatto, proprio quando si stava mettendo a piovere, e le gocce sono state abilmente raccolte nell’artwork. È un’immagine che ci racconta di un’altra – l’ennesima – eterna periferia. Per quanto riguarda l’accoglienza, sebbene sia ancora molto presto, siamo molto felici di come il lavoro stia venendo accolto e valutato: abbiamo avuto diverse richieste per interviste, la recensione di Antonio Ciarletta su Blow Up è magnifica e l’impressione è quella di avere dell’interesse intorno a noi, per un’insieme di fattori che ci ha portato fin qui.
Riguardo ai partecipanti al disco: in effetti non ci sono le “ospitate”, bensì un risultato coeso e ben impastato, al servizio del disco e del progetto. A livello di concerti invece come vi muoverete? Ce la farete a uscire dall’Italia coi live? Avete in mente o state mettendo su qualcosa?
Andrea: Con il precedente disco siamo già riusciti a suonare all’estero, in Francia, Svizzera e Germania. Proveremo a seguire quella scia cercando di andare dove ci sarà possibile. Finora abbiamo già fissato diverse date, la presentazione a Torino e la festa di Maple Death. Lo show sarà più completo che in passato, avremo due proiettori puntati su di noi, degli effetti visuali molto coerenti e l’impressione, rilevata durante la nostra data “zero” di prova, è quello di un’esperienza completa, tanto che in quell’occasione più di una persona è arrivata al termine del concerto in posizione stesa e visibilmente soddisfatta della cosa!