RUSSIAN CIRCLES, Blood Year
Il percorso dei Russian Circles prosegue lungo gli stessi binari, oscillando fra dinamismo sonoro e voglia di imporsi ancora una volta come una delle realtà più importanti e consolidate della scena post-metal internazionale.
A tre anni di distanza dal suggestivo Guidance, il trio di Chicago torna a farsi vivo con un disco i cui elementi riassumono, in maniera compatta e per certi versi più immediata che mai, tutto ciò che la band è stata capace di mettere sul piatto nei lavori precedenti. Blood Year, pubblicato sempre da Sargent House, è un disco solido, duro, accattivante e monolitico, nonostante l’ipnotica e introspettiva “Hunter Moon”, breve brano di apertura, in cui lo spettrale arpeggio di Mike Sullivan crea un’atmosfera calma ma non rassicurante, spezzata immediatamente dal violento drumming iniziale di “Arluck”, brano costruito su giri di tapping infernali e sinistri riff sludge. “Milano” rappresenta senz’ombra di dubbio il momento più alto del disco, essendo in grado di evocare, in maniera magistrale, le trame più glaciali e disperate del black metal norvegese, immergendoci in una profonda ed asfissiante atmosfera dai richiami post-apocalittici. Oscurità che viene solo a tratti interrotta da brevi spiragli di luce nella parte centrale della successiva “Kohokia”, pezzo mastodontico, la cui metamorfosi si sviluppa sulle granitiche e insostituibili linee basso di Brian Cook. Il secondo e ultimo momento di respiro del disco arriva con “Ghost On High”, enigmatico intermezzo di chitarra pulita e basso ricco di fuzz, che procede su un terreno altamente instabile, destinato a sprofondare nuovamente nella devastante oscurità di “Sinaia”, per poi condurci alle ritmiche sludge cadenzate della conclusiva “Quartered”, in cui l’abilità alla batteria del talentuoso e versatile Turncrantz torna al centro della scena.
Blood Year è il settimo lavoro in studio dei Russian Circles, non il loro miglior disco se lo si considera dal punto di vista della varietà stilistica e sonora, sebbene la quasi totale assenza di aperture melodiche ed emozionali sembri essere decisamente intenzionale, costituendo un’ulteriore dimostrazione della padronanza sonora raggiunta dalla band, che in una veste stavolta quasi esclusivamente aggressiva non tradisce le aspettative e mantiene il suo status di realtà cult del panorama post-rock.