Rural american: i suoni primitivi di Buck Curran
Il ritorno solista
Se gli Arborea vi dicono qualcosa, allora siete a buon punto. Buck Curran ha fatto parte di questo duo, con Shanti Deschaine (sua ex compagna) e ha percorso in lungo e in largo le lande sterminate del più alternativo folk-rock made in USA, infatti sono usciti un po’ di lavori da dieci anni a questa parte, l’ultimo dei quali, Fortress Of The Sun, per la storica ESP-Disk’ di Bernard Stollman, che pubblica anche questo album in solitaria. Relativamente in solitaria, a conti fatti, dato che per l’occasione Curran si fa aiutare da un manipolo di musicisti fidati, compresa la stessa Shanti in tre tracce (spicca quella di chiusura, la lunga “Immortal Light”, sacrale e da classici titoli di coda). L’album è piacevole all’ascolto, le parti chitarristiche scorrono lisce come l’olio, la voce esprime un generale tono basso e ieratico. Più volte si invola in lunghe e meditabonde suite strumentali (“Sea Of Polaris” e “River Unto Sea”) rasentando persino la drone-music (“Andromeda”), altre in duetti sempre solenni (“New Moontide”), arrivando a cimentarsi pure con un classico immortale come “Bad Moon Rising” dei Creedence Clearwater Revival, al rallentatore e trasfigurato fino a renderlo quasi irriconoscibile.
L’omaggio ai “padri”
Uno come lui, poi, non poteva non mostrare pubblicamente l’amore per Robbie Basho, che è – insieme a John Fahey e al discepolo Jack Rose – tra gli storici esecutori di musiche senza tempo e piene di pathos, comunemente rubricate come “American Primitive”. Curran questa volta sceglie di allargare la schiera dei collaboratori, presenti in ogni brano: degni di nota “Pasha” da The Falconer’s Arm II (1967), “Salangadou” (tratto da Basho Sings) con Eva e Jesse Sheppard (una composizione celestiale e di una bellezza fragile), il crescendo della leggendaria “California Raga”, dallo storico Song Of The Stallion (in origine per la Takoma proprio di Fahey) con gli inglesi Twelve Hides, e via elencando. Se “Fog Upon The Moon” è una splendida rilettura che mette in risalto l’andamento ritmico andando a parare in territori medio-orientali (decisivo l’apporto dell’Oud suonato dal siriano Tammam Saeed), “Golden Rose At Dawn” conserva quell’afflato melodico caratteristico di molte composizioni dell’epoca, con l’accento posto dalla slide di Chuck Johnson. Non dev’essere stato semplice per il chitarrista architettare questo tributo: una prima parte, “We Are One, In The Sun (A Tribute To Robbie Basho)” uscì già nel 2010 per la Important Records e già allora s’intuiva che l’operazione era rischiosa, facile infatti scadere nell’omaggio più scontato… Curran riesce invece ad evitare le esecuzioni calligrafiche, pur rimanendo fedele agli originali. In fondo tributi come questo servono sostanzialmente a rispolverare i vecchi dischi (per chi li ha già) o a farli scoprire ai più giovani. Non si finisce mai di imparare…