RUIN, Drown In Blood
Con un titolo che più old school death metal non si potrebbe, si presentano gli americani Ruin. L’etichetta che li lancia sulla distanza lunga è la Memento Mori spagnola, che, fra le cosiddette cd-label, è di certo fra i nomi più apprezzati nella scena.
I Ruin sono stati resuscitati dal loro chitarrista circa un paio di anni fa, l’ultima volta che avevano fatto qualcosa era stata nel 1991 e si trattava di un demo. La musica dei Ruin proprio al death metal più putrido e sotterraneo dei primi anni Novanta si rifà (Stati Uniti in primis, ma anche un pizzico di Finlandia), quindi accordatura ultra-ribassata, voce sordidamente gutturale e in genere effettata, tempi mai troppo veloci e al limite molto lenti. Perdonate la scontatezza, ma non riesco a non citare gli Autopsy, soprattutto quando si indulge sulle parti d-beat, anche se i Ruin sono molto più sporchi e con un suono di chitarra che, alla ricerca di abissi infernali, tende a perdere un po’ di mordente. È però vero che è proprio la chitarra il punto di forza dei Ruin, nella sua pressoché continua disarmonicità e invadenza è proprio questo suono con scarso attacco a identificarli e persino ad arricchirli con occasionali variazioni a base di riverbero.
Immaginate di stare in una fogna buia e stretta: se ci restate, allora morirete soffocati, se uscite, allora troverete un pazzo che vi taglierà la gola. Ecco i Ruin.
Nel momento in cui andiamo on line l’album è completamente in streaming qui.