ROYAL BLOOD, How Did We Get So Dark?
La mia diffidenza nei confronti della formazione risicata, chitarra e batteria, è la logica conseguenza della sua diffusione tra le coppie di paninari pop che giocano a fare il gruppo garage. Per i Royal Blood non posso fare questo tipo di discorso, perché, trattandosi di un duo che non fa mistero d’indossare abiti buoni (altrimenti si sarebbero scelti un altro nome, no?) e di non essere interessato a spremere sporcizia da ogni nota, gran parte dei miei sospetti viene a cadere.
Anticipato dall’uscita del singolo “Lights Out”, How Did We Get So Dark? rappresenta la prova del nove per la band di Brighton che, praticamente dal nulla, si è lanciata (o è stata lanciata) a tutta velocità contro il muro dei mass media, con la chiara intenzione di fare breccia e conquistare un trono a cui molti gruppi aspirano, senza che nessuno riesca a conquistarlo: quello di Rock Band simbolo di (almeno) un decennio.
I tempi, lo sappiamo, sono duri. La carestia artistica ha trasformato in terra brulla la grande prateria del Rock, riducendo le ultime forme d’espressione musicale sincera in piccole oasi alimentate da corsi d’acqua sotterranei e invisibili agli occhi di chi non è avvezzo a ficcare la testa in buche scavate, alla meno peggio, con le proprie mani. Ma a quanto pare i Royal Blood se ne strafregano. Loro sgorgano in superficie e vogliono quel dannato trono!
Dato per scontato il successo commerciale, non era invece affatto scontata la presenza di sostanza assai densa nel loro secondo album, uno di quei dischi che non mi capitava di ascoltare da un po’, del tipo che appena ce l’hai tra le mani te lo spari due o tre volte di fila e non ne hai ancora abbastanza.
How Did We Get So Dark? è un contenitore scuro, per l’appunto, entro cui un malessere dilaniante finisce per rimbombare come un urlo rabbioso accompagnato da un ritmo minimale, che a tratti sa di tribale. È la title-track in apertura a definire i confini di questa gabbia in cui siamo finiti tutti, o quasi, almeno una volta nella nostra vita. L’incipit, con quattro giri di batteria solitaria, detta il tempo con il quale ci si addentra in questa prigione e i cori in chiusura suonano come un allarme tardivo o, se preferite, come la porta blindata che si serra alle nostre spalle. Troppo tardi per tornare indietro, ci siamo dentro fino al collo.
A fare luce sui dettagli ci pensano “Lights Out” (una cosa di cui iniziavo a sentire la mancanza era un video all’altezza di una megaproduzione, cosa che qui non manca, del resto si tratta di una band sulla quale la Warner sta rovesciando verdoni a pacchi, e allora che li spendessero anche per fare un bel video ‘sti cazzo di soldi) e “I Only Lie When I Love You”, un ultra-blues contemporaneo che carica a testa bassa come un rinoceronte, preparando il terreno per quello che, almeno per me, segna la fine delle ostilità per k.o. dell’ascoltatore alla quarta ripresa: “She’s Creeping”. Si potrebbe spendere un’intera recensione solo su questo pezzo, cosa che ovviamente vi risparmio. Qui richiami e riferimenti sono di alto rango: strofa alla Nirvana e ritornello in stile Sly Stone. Su una ricetta del genere è facilissimo schiantarcisi come un piccione contro una vetrata, ci vogliono talento e sensibilità per mettere bene insieme tutto, e siccome per certe cose sono un pessimista cosmico, non ci punterei più di 200 Lire del vecchio conio. E commetterei un errore! Perché poi, l’effetto è quello di un suppostone alla nitroglicerina, entra dentro scivolando dolcemente e poi ti fa esplodere. La traccia numero quattro marca anche un passaggio nella scaletta dell’album; subito dopo, infatti, affiorano più influenze disco di fine ’70 inizi ’80. Ma non lasciatevi ingannare, perché puntualmente arriveranno dei bei riffoni a colpirvi dietro la nuca, come nel caso di “Where Are You” dove i due inglesini attaccano suonando qualcosa che ricorda Blondie, e nel lasso di tempo necessario per mettere a fuoco questa somiglianza, te li ritrovi alle spalle pronti a colpirti con un bridge in stile RATM. Strano miscuglio, non credete?
In un super disco da vera Rock Band non può mancare una ballad, così i Royal Blood infilano in scaletta “Don’t Tell”, riuscend anche a non risultare lagnosi. Onestamente non si tratta di una ballad vera e propria, ma diciamo che ne fa le veci.
Il resto mette ulteriormente in mostra le varie anime che influenzano il duo d’Oltremanica. C’è tanta roba, non solo quella alla quale abbiamo fatto riferimento esplicito, ed è tutta tenuta magistralmente insieme da una capacità di scrittura ed arrangiamento che trasformano ogni singolo brano dell’album in un pezzone incredibilmente ben riuscito per un motivo o per un altro. Ok, tanta roba, ma tanta quanto? Suoni potenti, passaggi raffinati, ritornelli incredibilmente funzionanti, qualche intramezzo psichedelico, groove hard rock come calci nei fianchi, groove disco-funk come bastonate sul muso, trazione di coppia bassa senza interruzione, produzione strepitosa da band multimilionaria. In tutto ciò ci ho sentito, in ordine sparso, RATM, QOTSA, Led Zeppelin, Black Sabbath, Danko Jones, Sly & The Family Stone, Prince, Stone Temple Pilots, Nirvana, Depeche Mode, Death From Above, Blondie, Ok Go, D4, Lit… troppo per ottenere un risultato coerente. E proprio in ciò consiste la grande impresa che i Royal Blood compiono con questo secondo album pubblicato a tre anni dall’esordio: dare forma omogenea a un insieme numeroso di saccheggiamenti effettuati a macchia di leopardo nell’enciclopedia della musica AE (After Elvis), così come fatto anche dalle band dei 90’s che a noi piacciono tanto.
I Royal Blood non hanno ancora un posto nella storia, ma bussano prepotentemente alla porta di un futuro che della storia e della preistoria non ha dimenticato nulla.
Tracklist
01. How Did We Get So Dark?
02. Lights Out
03. I Only Lie When I Love You
04. She’s Creeping
05. Look Like You Know
06. Where Are You Know?
07. Don’t Tell
08. Hook, Line & Sinker
09. Hole In Your Heart
10. Sleep