ROSARIO DI ROSA BASIC PHONETICS, Crossroad Blues

ROSARIO DI ROSA BASIC PHONETICS, Crossroad Blues

Giusto un filo di voce, quasi una battuta teatrale, poi un muro elettrico a squarciare il sipario: pulsazioni elettroniche come da un’apnea remota, poi le domande nella voce, nel fischio insistito del flauto. Una sorta di ambient artica e virata al grigio industriale ci accoglie in questo disco che è un bel catalogo di idee, di incroci, di incontri, di deragliamenti. Poi si spalanca un pianoforte (il leader, anche a Celesta, Arp Odissey, Korg MS20 ed elettronica) e il discorso prende un’altra piega, riflessiva, nemmeno troppo distante da certi lidi ECM. Tutto questo nello stesso pezzo, nei primi quattro minuti. Al quintetto in azione in questo lavoro non manca la capacità di spaziare su più fronti, forse a volte esagerando: “Symptom Checklist 90 Revisited” è un diluvio di idee e di timbri non sempre pregnanti, che lasciano un poco di ruggine sul corpo del pezzo, articolato ma non sempre nitido nel suo sviluppo. Si intuiscono subito la bravura dei musicisti coinvolti e l’urgenza sincera che li anima, ma in questo caso il risultato è interlocutorio. L’elettronica (suonata, oltre che dal titolare del progetto, anche dalla cantante Sarah Stride e dal flautista Carlo Nicita) ha una funzione importante nell’economia del disco, che è pervaso da un sentimento nordico e in qualche maniera apocalittico che affascina e allontana al tempo stesso; in “Action Speaking” sembra di avvistare balene in notturna, in “Beck Depression Inventory” (una versione jazz rock di certo trip hop?) assistiamo al riuscito tentativo di costruire una song languida e sbilenca, tutta fuochi d’artificio, ben calibrata pur nel grande, talora eccessivo, dispiego di mezzi. Come un vulcano che fatica a trattenere la lava, la band esplode i colpi, sa muoversi con maestria nel groove, le dinamiche vengono dosate con sensibilità, ci sono poesia, energia, inventiva (le belle sincopi di “Cope Inventory”, che attacca con una scansione alla Steve Coleman per poi ossessionarsi e dissolversi in un altrove), poesia (“Un Cielo Pieno Di Nuvole”, con il testo liberamente ispirato a un’intervista a Syd Barrett). Proprio con questo pezzo viene in mente una striscia del grande Andrea Pazienza, che racconta di quel cielo così bianco: questo disco, al netto dei suoi fisiologici difetti, è comunque una ottima coperta di Linus per pomeriggi pensosi, mattine allagate o serate in cui si ha voglia di scappare dal mondo restando fermi in sala. Eclettismo, dolore, scintilla e fuga sono le parola d’ordine; non sempre tutto è tenuto perfettamente a bada, a volte gli interpreti si fanno prendere la mano dal gioco del virtuosismo (molto efficace anche il batterista Davide Bussoleni), ma il coraggio di tentare vie personali va assolutamente sottolineato: il mood novecentesco di “Karnofsky Performance Status”, con la chitarra di Alberto N.A, Turra in bella evidenza e un dettato fitto, denso e scuro. I titoli di buona parte dei pezzi e un certo mood del disco rimandano alla malattia: forse questi pezzi sono una sorta di blues autoptico ed iper-evoluto per sfidare la morte, o un’elegia. Comunque sia, al netto di qualche prolissità, il mood complessivo del lavoro cattura e avvince: perfetti per perdersi i panorami orizzontali dall’oblò di “Action Speaking#2”, finale e definitivo nel migliore dei sensi e dei mondi (im)possibili l’incipit di “Post Traumatic Grow Index/Dusk”, prima minacciosa, poi minimale, e a dire il vero un po’ troppo seduta, quando invece avrebbe potuto magari suonare come una versione pop di μ-Ziq, l’alias con cui Mike Paradinas quando avevo vent’anni mi aveva rapito con questo strike assoluto.

Un disco che è il suono di una lotta verso la luce, il viaggio di una nave rompighiaccio in un crepuscolo boreale, un inventario di possibilità, non sempre sfruttate nel migliore dei modi, ma che ci presenta musicisti da cui aspettiamo con curiosità i passi futuri.