Ronin Fest, 29/1/2012
Bologna, Locomotiv Club.
Si respira aria di casa all’interno del locale, in questo weekend impegnativo per chi era indaffarato a fagocitare arte contemporanea negli spazi fieristici. E solo la sera prima c’era stato mr. Alva Noto a dare colore metallico al tutto…
I Ronin, invece, preparano questo happening invitando i loro amici e dandoci la possibilità di fare un’analisi piuttosto importante di quello che oggi esprime il Belpaese.
Apre le danze Tiziano Sgarbi aka Bob Corn, ed è subito atmosfera rilassata, quasi da sala da the e luci fioche, col musicista veneto che empatizza col pubblico accorso. Come un Sam Beam a fare il busker disperso in una foresta, offre un set bucolico e onesto, anche se – a dirla tutta – non molto originale. Il barbuto menestrello però ci crede, e questo deve bastare.
È la volta poi di Stefano Pilia, poche presentazioni per il chitarrista ligure che imbastisce un’esibizione intransigente, con lo strumento che viene di volta in volta seviziato da un archetto fino a provocare un esorcismo degno della migliore “avant”, venato di noise “contemporaneo”. Il suo, in fondo, è un rimuginare sulla carcassa rock con l’aggiunta di tinte solenni che all’improvviso elettrificano e rivitalizzano il folk. Col passare dei minuti prende il sopravvento un ispessito rumorismo, sempre più ricco di sfumature e stratificazioni sonore, una sorta di cacofonia caparbia. Promosso, insomma, del resto lo avevamo già apprezzato lo scorso anno, quando fece da supporto agli Zu.
I lunghissimi dreadlocks di Stefania Pedretti / ?Alos si fanno materia musicale e coreografica per una performance teatrale e parossistica. Evocativi singulti vocali si trasformano in improvvise polluzioni weird-noise, con quel rifferama quasi doom metal che fa rabbrividire. Usa come plettro un grande pezzo di vetro colorato (o plastica, chissà) e inscena un violento e orrorifico sabba sonoro, tra ecolalie orientaleggianti e brevi accenni diplofonici “stratosiani” che fanno tanto dada.
Brevissima pausa tecnica per preparare gli strumenti, e fanno la loro comparsa i modenesi Three In One Gentleman Suit. Ascoltammo con distrazione il loro esordio di qualche mese fa, e l’opinione che ci facemmo allora viene confermata adesso: math rock discretamente energetico tra Don Caballero e svisate à la Three Second Kiss. La loro proposta, però, è troppo perfetta e metronomica, così da risultare in qualche modo chirurgica, da laboratorio post-rock dove si ricreano muscolari manichini gonfi di steroidi. Interessanti comunque sia la timbrica della chitarra, che spesso sembra un barrito, sia quei giri di basso ossessivi. Rimandati.
Quasi dimenticavamo: durante tutte le esibizioni Dorella è parte del pubblico, segue con attenzione e, quando arriva il suo turno, prende possesso del palco insieme ai suoi sodali. Tranquilli e consapevoli della loro forza espressiva, ammirata anche nell’ottimo e recente Fenice, attaccano con il loro cow-punk dalle riconoscibili matrici morriconiane, ma in “Selce” la grana musicale si fa più felpata, tanto che a tratti ricordano anche gli ultimi Earth. Non esageriamo quando diciamo che sottotraccia si respira una delicata poeticità. A un certo punto, nelle fasi più concitate, sembra quasi di vedere il fantasma di un giovane Adriano Celentano che si spreme le meningi nel rifare il rock dei ’50, tra surfate convinte e l’aria “laida” delle balere padane avvolte nella nebbia. La proposta dei Ronin è paradossalmente originale e compiaciuta, dunque, sa di essere efficace, anche quando prova a smarcarsi da troppo ovvie cantilene cinematiche permettendosi il lusso di ospitare Nicola Manzan aka Bologna Violenta al violino, per una rendition della title-track, “Fenice”. Breve bis con accenno alla grandiosa “I Pescatori Non Sono Tornati”, estratta da “Lemming”, ed è già tempo di affrontare le tenebre. Viene proprio da dire che è stato un piacere essere ospitati a “casa” di Bruno, ad ascoltare rilassati le sue storie mute e a immaginare scenari lontani.
Grazie Ronin, davvero.
(foto di Michele Maglio)