Roly Porter: a occhi spalancati
In termini di densità, colori scuri, atmosfera e impatto, per me Lustmord (e i suoi epigoni), Thomas Köner, Earth, Sunn O))), Kevin Martin, Justin K Broadrick, Mick Harris e Pan Sonic abitano in una stessa zona, alla quale nel tempo si sono avvicinati gli artisti Subtext Recordings.
Durante gli anni Dieci, almeno per come la vedo io, era inevitabile che l’onda lunga (lunghissima) di certo dub catramoso, influenza diretta o indiretta su tanti dei nomi che ho appena fatto, arrivasse fino a me, così da farmi conoscere Roly Porter, Paul Jebanasam o Emptyset, invogliandomi a ricostruirne l’albero genealogico. Tutti loro, a un certo punto, si sono allontanati dalla galassia “dance” dalla quale provenivano, per quanto eccezionale come quella bristoliana. Porter, infatti, assieme a Jamie Teasdale (oggi Kuedo) girava durante i Duemila a nome Vex’d, pubblicando due full length molto apprezzati, messi un po’ a forza nello scaffale dubstep, ma in realtà molto più compositi e oltretutto diversi tra loro. Poi ha cominciato a staccarsi dai cliché del suo mondo, producendo materiale senza forma, sempre però potentissimo e devastante, corporeo. Vien da scrivere ambient, ma il rischio è di indurre a pensare a qualcosa di diafano, quando chiunque (Frost, English, Irisarri, Haxan Cloak, Raime…) in quello stesso periodo ha cercato la fisicità, ispirandosi a quei pionieri che ho citato sopra e – leggendo le interviste – agli Swans, che del resto sono i fratellastri maggiori di Godflesh e Neurosis, quindi tutto torna.
Porter, da solista, ha pubblicato un trittico (fanta)scientifico: Aftertime (2011, la cui tracklist contiene riferimenti chiari a “Dune”), Life Cycle Of A Massive Star (2013), Third Law (2016). La prima cosa sorprendente è come – dopo secoli in cui nessuno se la sentiva di affrontare i massimi sistemi – lui non si sia fatto problemi a imbastire discorsi sullo Spazio, sul Tempo e sulle leggi naturali. Sono album pensati per far vivere una vera e propria esperienza e sembrare giganteschi. A colpi di volume – e in generale di “massa” – regalano vertigini e scuotono, unendo basse frequenze spaccapavimenti, noise, synth, tastiere analogiche (la Onde Martenot in Aftertime e Third Law), strumenti legati alla musica classica (sempre Aftertime), richiami melodici alle colonne sonore dei grandi film di fantascienza del passato.
Gli scenari sono chiarissimi e l’oltranzismo di Porter (di nuovo: lo stesso di tutti gli artisti menzionati a inizio articolo) li rende davvero reali. L’occhio spalancato sulla copertina di Third Law dice molto sullo stupore che quest’uomo vuole provocare e su quanto “visivi” e cinematografici siano i suoi dischi. Non si batte ciglio, infatti, quando si scopre che il suo nuovo album Kistvaen nasce come opera audiovisuale in combutta con MFO, né che alla fin fine l’album abbia a che fare con altri Grandi Punti Di Domanda che ci portiamo appresso da sempre.
Le kistvaen sono tombe antichissime, i cui esemplari più conosciuti si trovano a Dartmoor, in Inghilterra: semplici buche delimitate (e coperte) da pietre. Basta leggere la tracklist del disco per capire la storia: “Assembly”, “Burial”, “An Open Door”, “Inflation Field”, “Passage”, “Kistvaen”.
In quest’album il digitale di Roly Porter conversa con strumenti folk/tradizionali e – mai come in passato – voci umane, lasciate nude nella loro bellezza o ricombinate dal software. C’è il suono imponente al quale siamo abituati, ma lascia spazio a frangenti più rarefatti e malinconici, come se fossimo davvero a una cerimonia funebre e il silenzio rappresentasse il dovuto rispetto al defunto. Difficile non parlare dei quattordici minuti di “Passage”, della bravura con cui viene preparato il terreno e del suo crescendo drammatico e bruciante: c’è da chiedersi se sarà questo ciò che ascolteremo quando abbandoneremo questa dimensione e ci metteremo in viaggio verso un Altromondo di cui non sappiamo nulla. Volendo fare un complimento a Roly, vista la sua passione per la science fiction, la seconda parte di “Passage” sarebbe stata benissimo dentro “2001: Odissea nello Spazio”, nello specifico quando l’astronauta Bowman attraversa quel varco nello Spazio che lo conduce assurdamente in una lussuosa camera da letto.
Con quest’intervista a Roly Porter si conclude la mia serie di chiacchierate con gli artisti Subtext (Emptyset, Jebanasam, Fis, Sabin, Holm). A tutti loro, spesso, ho fatto le stesse domande, sperando che emergesse la descrizione di un’estetica comune, qualcosa che di sicuro ha lasciato un segno sull’elettronica degli anni Dieci.
Nel 2014 hai scritto un articolo per Wire: parlava del logo della Metalheadz, ma aveva a che fare soprattutto con te giovane che cominci a vedere la musica come something completely serious, not throwaway, not for play. Volevi essere uno junglist. Cosa sopravvive in te di quegli anni di “formazione”?
Roly Porter: Pensavo di recente agli anni di formazione, a come idee e tematiche con cui entri in contatto in un preciso periodo della tua vita restino con te molto a lungo, addirittura per sempre. Le colonne sonore e il design di film come “2001: A Space Odyssey” o “Blade Runner”, la prima volta che osservi immagini e musica combinate in quel modo: l’impatto è massiccio. È perché erano film innovativi, definitivi e mai superati o ero io a trovarmi in una fase della mia vita in qui ero particolarmente ricettivo? Sarò mai influenzato o smosso così tanto? Il monolito di “2001”, come immagine e come idea, per certi versi è presente in tutto ciò che ho fatto, lo ha condizionato, e anche quando cerco di non utilizzare temi musicali specificamente fantascientifici, quell’estetica è ancora lì. È successo qualcosa di simile con quanto ascoltavo nei Novanta, in particolare il materiale della prima Metalheadz: ero ricettivo ed ero ossessionato da quell’etichetta, che ha plasmato alcune mie idee relative al “peso” e alle intenzioni della musica, ma sarebbe interessante capire se quello era di per sé un periodo di avanzamenti per l’elettronica o se ogni generazione ha la stessa esperienza che ho avuto io con il sound della sua epoca.
L’ho chiesto a Ginzburg, Jebanasam, Peryman e Sabin. Ogni volta che vi ascolto, penso che i miei lettori abbiano bisogno di capire quanto la “sound system culture” influenzi tuttora artisti come voi…
Sono ancora alla ricerca di quel livello di immersione e di intensità, ma il contesto è diverso. Non sono una persona molto estroversa per quanto riguarda il mio rapporto con la musica, quindi l’esperienza del sound system e della dance per me è sempre stata solo il tuffarsi in essa, non l’andare in un club, ballare o socializzare.
Nella dance gli aspetti ritmici e quel senso di ripetitività possono favorire un’immersione paragonabile a uno stato di trance, però nel momento in cui (durante la scrittura dei miei pezzi) ho cominciato a ignorare il bisogno di “funzionalità”, togliendomi dalla testa l’idea che qualcuno dovesse ballare sopra a quello che facevo, ho iniziato a considerare più limitanti che d’aiuto le strutture costituite da griglie ritmiche, anche se a volte le utilizzo ancora. Anche con la rimozione dell’elemento dance, sono ancora un’influenza grossissima per me quel senso di “pesantezza” dei sound system e gli avanzamenti nel mixing e nel sound design ottenuti da vari artisti appartenenti a quel mondo.
Emptyset, Jebanasam, Fis: avete tutti cambiato stile, focalizzandovi di più su atmosfere e texture, meno sui ritmi. So che siete tutti individui autonomi, ma esiste un’estetica Subtext? Sto pensando anche al massimalismo e alla fisicità del sound.
Mi preoccupo sempre di non essere condizionato da altri artisti elettronici a me contemporanei, perché ci troviamo in un mondo in cui molta gente utilizza gli stessi strumenti digitali per produrre musica, quindi c’è il costante pericolo di suonare simili a qualcun altro. Per quanto riguarda la Subtext, mi sento di dire che abbiamo tutti un sound separabile e definito, ma traggo un sacco d’ispirazione tecnica e filosofica dagli altri, ed è un’impresa non copiarli una volta che capisci come ottengono concretamente certe cose. Questo vale soprattutto per il metodo degli Emptyset. Quel colpo di basso particolare che hanno perfezionato è così iconico che spesso mi sembra di essere andato troppo vicino ad emularlo. È molto importante per me essere in un gruppo di persone che stanno lavorando intorno a idee simili, però ciascuna a suo modo. La sensazione di essere supportato e al contempo una salutare competizione sono vitali per me: ogni volta che penso di aver fatto un passo in avanti in qualche direzione, uno di loro mi manda qualcosa che alza ancora l’asticella.
Ho ascoltato molto Third Law, Life Cycle Of A Massive Star e Aftertime, forse perché mi piace la fantascienza e forse perché adoro guardare film di fantascienza al cinema, perdendomi nello Spazio e godendomi la potenza del sound design. Molte persone, me compreso, pensano che Third Law sia un vero capolavoro. Hai sentito il peso di questo disco quando creavi Kistvaen?
Si sente decisamente la pressione del dover creare qualcosa di diverso ogni volta. C’è molta osmosi nei miei lavori, certi suoni e certi temi a cui continuo a tornare, ma la sfida è dare a ciascun progetto il suo universo sonoro.
Quando hai iniziato a lavorare su Kistvaen? È partito come una collaborazione audio-visiva tra te e Marcel Weber (vero nome di MFO; per inciso Kistvaen si è già visto, ad esempio, ai festival Unsound, Berlin Atonal e Sonic Acts) o avevi già qualcosa in mente per conto tuo? Come è cambiato Kistvaen prima di diventare un album vero e proprio?
L’idea del sound e del contesto è arrivata un paio di anni fa, ma non appena ho cominciato a parlarne con Marcel, lui ha ampliato il racconto e insieme, nello stesso periodo, abbiamo sviluppato gli aspetti audio e video. Il fatto che la parte visiva del progetto sia stata creata in tandem con quella sonora è stato molto d’ispirazione. Vedere tradotte in film e immagini le idee e i suoni su cui lavori è un ottimo modo di procedere, in particolare perché per questo progetto il racconto è molto importante.
Questa volta hai coinvolto anche tre cantanti. Abbiamo tutta la tecnologia del mondo, ma non smettiamo di amare il suono unico della voce umana. Ho tanti esempi recenti da fare (Holly Herndon è uno di questi). È lo stesso per te?
Sì, sono completamente d’accordo e la maggior parte della musica che ascolto ora è in qualche modo “vocale”. Come sound designer impiego la mia vita cercando di creare strumenti e texture che siano nuovi, mai sentiti o espressivi, ma nessuno dei suoni che ho fabbricato si avvicina minimamente al livello di emotività, flessibilità e impatto della voce umana.
Mentre ci preparavamo per l’Atonal, Mary-Anne Roberts, che è presente sull’album, mi ha cantato una breve ninna nanna. Stavamo in una piccola stanza d’hotel, un luogo molto poco d’ispirazione, eravamo a metà del giorno, ma nel momento in cui lei ha iniziato, io sono crollato completamente: era da tanto tempo che non avevo un’esperienza così travolgente. La stanza sparisce e tu senti solo una voce. Non ci sono tanti altri suoni che possono ottenere questo.
La voce è anche considerata il primo strumento musicale. C’è un dialogo in Kistvaen tra passato e presente (pare anche nel suo corrispondente visivo): fai ricorso a strumenti tradizionali in diversi momenti. Nel 2014 il futuro Premio Oscar Hildur Guðnadóttir mi ha detto: “Penso che la tradizione sia una specie di conversazione storica lineare tra persone che con ogni probabilità non si sono mai incontrate”. Domanda da un milione di dollari: quale è il tuo rapporto con la tradizione?
Sì, una domanda molto difficile, dato che nella mia testa rimane una domanda, perché la risposta continua a modificarsi e ad evolversi man mano che invecchio e coi cambiamenti della vita. “Tradizione”, poi, può essere interpretata in così tanti modi: la storia della musica o della scienza o della religione, il mio rapporto con la società o col Paese dove vivo o col paesaggio e come noi vediamo noi stessi all’interno di questa combinazione di fattori. Una cosa su cui questo progetto mi ha fatto riflettere è stata il come nel corso della storia umana alcune idee e alcuni obiettivi siano tornati più volte a esser presi in esame. Trovo molto rassicurante non il fatto che non abbiamo trovato risposte, ma che certe domande valgano la pena di essere riproposte di continuo di generazione in generazione.
Ultima domanda. Domanda del fan, perché per altre il futuro è incerto. Di Kistvaen mi affascina in particolare “Passage”. Lì fai ciò che ti riesce meglio: esprimere col suono ciò che nessuno può esprimere a parole. È la traccia più lunga dell’album. Come ti senti quando ascolti “Passage”?
Dunque, la sensazione principale è “come posso accorciarla?”. Lo sketch originale era straordinariamente lungo: i diversi stadi della traccia o le varie cose che volevo esprimere con essa erano difficili da ridurre. I suoi pezzi non si possono separare, è un’idea unica, ma si sviluppa in più fasi come nient’altro in questo disco. Per tornare a parlare dello scrivere musica senza strutture “funzionali”, è interessante capire come si possa determinare la giusta lunghezza di qualcosa che non si adatta a una ritmica o a una struttura melodica convenzionali. La traccia non è imperniata intorno a questi fattori, così non ci sono regole per stabilire quanto a lungo ciascuna soluzione o ciascun suono debbano durare.
La percezione del tempo quando si ascolta musica può essere influenzata da fattori esterni. Certe volte puoi ascoltare un “edit” e tutto accade esattamente nel momento giusto, ma in un altro contesto ciascun elemento può far da zavorra e dunque l’andamento della traccia sembrare sbagliato. Un giorno, a un certo punto e in un certo luogo, “Passage” avrà la forma giusta per tutti.