Roberto Bartoli: “Il contrabassista passeggia nel vento”
Contrabbassista, compositore.
Ha partecipato a festival internazionali in Italia, Francia, Svizzera, Austria, Germania, Belgio, Spagna, Portogallo, Slovenia, Croazia, Russia, Bulgaria, Libano, Tunisia, Etiopia.
Ha collaborato a numerose registrazioni per diverse etichette discografiche, tra cui YVP Music, Splash’ Records, Philology, Stella Nera, El Gallo Rojo, Dodici Lune, Limen Music…
Molte sue composizioni sono state trasmesse nelle programmazioni di RAI-Radio3, come pure una sua partecipazione ai Concerti del Quirinale a Roma.
Nel marzo 2013 si è esibito al Teatro alla Scala di Milano, presentando tra l’altro alcune sue composizioni dedicate a Béla Bartók.
Ha tenuto una lezione sull’improvvisazione al Conservatorio di musica di Addis Abeba.
È docente di contrabbasso e didattica d’insieme presso la Nuova Scuola Comunale di Musica di Imola, dove dirige anche l’orchestra degli allievi.
Ciao Roberto, ti intervisto mentre siamo in quarantena da coronavirus. Penso sia una delle interviste più assurde mai fatte. Ad ogni modo, cerchiamo di parlare di musica. Cosa hai prodotto di recente?
Roberto Bartoli: Ti rispondo passeggiando per la campagna che circonda la casa in cui vivo.
Vento freddo da Nord Est, sferzante in faccia.
Unico essere vivente incontrato, un cane solitario incurante del covid19, che scorgendomi ha accuratamente cambiato direzione seguendo il saggio istinto di stare alla larga da un rappresentante della specie più deleteria che questo pianeta abbia conosciuto.
Parlare di musica in questi giorni può avere mille direzioni, mille spunti di riflessione… sento dire da molti la frase “speriamo che presto tutto torni come prima”: che significa? Forse tornare a politiche culturali quantomeno discutibili? Ai soliti meccanismi per cui i grossi finanziamenti vengono intercettati dai pochi soliti noti? E le briciole ai soliti tanti piccoli ignoti?
Bah… Bello sarebbe l’utilizzar questo periodo di quarantena per meditare su ciò.
Per tornare alla tua domanda, recentemente ho pubblicato Landscapes, uscito per l’etichetta Dodicilune. È un lavoro autobiografico, melodie e songs che avevo nel cassetto da molti anni, ed a cui avevo in un certo qual modo promesso vita pubblica: ho sentito la necessità di mantenere la promessa. Stilisticamente lo considero un’ode alla semplicità, al mood “slow” applicato alla vita, forse semplicemente un omaggio a quella consapevolezza che ti regala il passare degli anni… Qualcuno ha detto che è un’opera della maturità; per me, come ogni disco che facciamo, anche questo non è altro che la fotografia di un momento, di un periodo del nostro lavoro artistico ma anche della nostra vita. Una foto tra le tante, né meglio né peggio. Di certo rappresentativa del mio sentire oggi. Mi hanno accompagnato in questo lavoro, e li menziono con gratitudine, Achille Succi, Stefano Bedetti, Daniele Santimone e Stefano Nanni.
Purtroppo è invece ancora nel cassetto un’altra bella fotografia, quello splendido Bubbles, Globes and Foams registrato con te e Pier Marco Turchetti ormai un anno fa, e che meriterebbe una dignitosa pubblicazione quanto prima.
Abbiamo avuto il piacere di collaborare insieme per tanti anni. L’esperienza che abbiamo condiviso con il T.A.O. trio, con Paolo Fresu come ospite sembra appartenere a un contesto musicale lontanissimo. Eppure erano gli anni Novanta! Cosa è cambiato rispetto ad allora?
L’esperienza del TAO Trio è stata per me molto formativa e creativa. Dal punto di vista compositivo erano tutte musiche originali, scritte ed eseguite da musicisti dal sound molto personale. Il risultato era qualcosa di veramente originale per l’epoca, e non credo sia un caso che la prestigiosa etichetta tedesca YVP ci abbia voluto nel suo catalogo. E non è stato un caso che il gruppo sia nato in un determinato periodo a Bologna all’interno di quel crogiuolo di idee e creatività che era Basse Sfere, collettivo che raccoglieva un gruppo eterogeneo di musicisti improvvisatori. Collettivo che, come altri simili sorti in diverse città europee, ha lasciato un segno profondo nella cultura musicale (e non solo) di molti anni a venire.
Cosa è cambiato? Premetto che da un po’ di anni vivo piuttosto isolato e non frequento le città metropolitane, se non per tenervi sporadici concerti: dunque credo di non avere un quadro aggiornato e informato riguardo ai tanti e repentini mutamenti della scena musicale. Ho però la sensazione che si stiano perdendo le tracce di quelle esperienze collettive di cui sopra, dove il condividere musica era anche, e soprattutto, condividere e scambiare pensiero, filosofia, idee che concorrevano in modo esponenziale alla crescita socio-politica collettiva e quindi anche delle espressioni artistiche. Mi pare che oggi, a ruota del sempre più dilagante individualismo degli ultimi anni, anche il fare musica ed il “viversi musicisti” segua questo triste declino. Fortunatamente, non mancano alcune interessanti eccezioni, come ad esempio il collettivo “Musica in pantofole”, nato ad Imola da un gruppo di giovani musicisti locali che fondono la loro forza sulla collettività dei loro happening ed in genere delle loro manifestazioni.
In questi anni della tua piena maturità è cambiato qualcosa nel rapporto dialettico tra te e il contrabbasso?
Negli ultimi anni, il mio rapporto con il contrabbasso, ma anche con la materia musicale in generale, è una ricerca ininterrotta e continua. Nello specifico, per quanto riguarda il contrabbasso ultimamente ho lavorato molto sulla produzione del suono, tra tutti i parametri forse quello che trovo rappresenti meglio l’animo del musicista; dedico poi tempo, quotidianamente, allo studio della composizione, all’orchestrazione ed alla poliritmia: considero tutti questi buoni e più che validi motivi per alzarmi al mattino.
Cosa pensi delle attuali condizioni del jazz italiano? Ritieni che gli attuali interlocutori, il tramonto delle esperienze dei collettivi siano un segnale di un effettivo cambiamento? E se sì, in peggio o in meglio?
Penso di non avere elementi approfonditi che mi permettano di esprimere una opinione sulle attuali condizioni, o situazione, del jazz italiano: di certo, mi par di vedere che si affacciano sulla scena molti musicisti giovani e sempre più preparati, ma con troppo poche opportunità di trasformare le loro competenze in una attività che abbia anche solo da lontano la parvenza di un lavoro, e questo mi par piuttosto deprimente. Di certo mi pare che il jazz italiano sia ancor poco sostenuto e tutelato dalle istituzioni: quei giovani musicisti a cui accennavo, laureati nei corsi dei Conservatori, hanno una preparazione invidiabile se paragonata a quella che avevamo noi alla loro età, e meriterebbero più considerazione, opportunità e sostegno economico per poter intraprendere questa professione.
La situazione del jazz italiano oggi, ma anche ad esempio la gestione del FUS, con le sue a dir poco discutibili ripartizioni ancora molto discriminatorie, sono dipendenti dalle scelte culturali di chi governa il paese: ascoltare o meno le istanze che i musicisti e le loro organizzazioni portano avanti è una scelta politica, che richiederebbe sensibilità, lungimiranza e consapevolezza di quanto la cultura possa essere d’aiuto allo sviluppo civile di un paese. Amen.
Del tramonto delle esperienze dei collettivi ho già detto sopra, e ribadisco che per me è un segnale di cambiamento molto negativo. Le registrazioni dei musicisti di collettivi come Basse Sfere, El Gallo Rojo, e l’ancor vivo e vegeto Improvvisatore Involontario, restano a tutt’oggi fulgidi esempi e testimonianze.
Cosa stai ascoltando prevalentemente? In Italia hai qualcosa da segnalare che ti ha veramente colpito in quest’ultimo anno?
Ogni giorno ascolto tantissima musica, per principio musiche diverse e a 360°, quindi tentarne anche solo un elenco o scegliere le più significative appare impresa alquanto ardua ed improbabile, da cui mi astengo volentieri. Mi piacerebbe giungere alla fine avendo ascoltato tutta la produzione musicale del mondo, dal Medioevo a oggi, così avrò qualcosa di cui discutere con gli amici che ritroverò in compagnia del buon Belzebù…
Tra le produzioni italiane recenti che mi hanno più colpito ci sono un paio di tuoi lavori, davvero interessanti: Black Poker e From Sun Ra To Donald Trump. Chicche.
Concludiamo con la solita mia domanda finale: una tua definizione di “protezionismo” e “tutela” applicata all’arte.
Tutela e protezionismo sono termini che possono dare adito a diverse interpretazioni.
Una società civile e democratica dovrebbe, a parer mio, incoraggiare e tutelare tutte le esperienze artistiche come prezioso patrimonio fondamentale per la crescita collettiva, spirituale ed etica della società stessa. Questa tutela implicherebbe concetti di libero scambio ed incoraggiamento tra le esperienze artistiche dei vari paesi, e relative sovvenzioni economiche per incentivare la sperimentazione e ricerca in quei campi. Ma, ben lontani da questa tutela, oggi si assiste per lo più a forme di discutibile protezionismo: considero tale il riproporre principalmente artisti e repertori popolari, graditi al vasto pubblico, evitando di rischiare con proposte più sperimentali e meno di “cassetta”… A onor del vero permangono ancora piccoli festival ed organizzatori illuminati che propongono scelte musicali controcorrente: i festival di Ambria Jazz e Cassero Jazz ne sono esempio, solo per citarne alcuni; ma restano eccezioni che confermano la regola. Nella maggior dei casi, assistiamo al protezionismo di chi ritaglia e protegge i propri territori di azione ed influenza, difendendoli con unghie e denti. C’è poi anche l’aspetto del protezionismo tra i musicisti, a volte ancor più meschino e con conseguenze non meno dolorose: suono con l’amico che poi mi fa suonare nel tal altro posto, il famigerato meccanismo degli scambi di gig, e prelibatezze simili…
Ora il vento è sempre più gelido, rientro dalla camminata. Il cane è sparito all’orizzonte, dopo aver attraversato campi arati deserti. Oggi è il 24 marzo, ancora nessuna rondine all’orizzonte. Ma arriveranno, e dopo il covid19 sarà ancora tutto come prima.
Postilla / ripensamento postumo: … anzi no, il post Covid19 sarà come un dopoguerra, con le sue macerie e purtroppo con le sue vittime. E con l’esigenza di ricostruzione. Ma potremmo avere nuove condizioni e consapevolezze per ripensarci, per ripensare politiche più giuste fondate sull’uguaglianza e la giustizia sociale. Nella sua sconvolgente e dolorosa apparizione sul pianeta, il silente ed invisibile coronavirus potrebbe essere, paradossalmente, la nostra unica chance.
Hasta siempre, vecchia canaglia!