ROB MAZUREK IMMORTAL BIRDS BRIGHT WINGS / VINCENT COURTOIS TRIO LOVE OF LIFE
ROB MAZUREK IMMORTAL BIRDS BRIGHT WINGS / VINCENT COURTOIS TRIO LOVE OF LIFE a Correggio Jazz, 17 e 18 maggio 2019
Le foto sono di Cristian Filippelli, che ringraziamo.
Musiche che illuminano il buio dentro e intorno, fiammiferi sonori a mostrare la via dove non ci sono segnali o tracce, il jazz come cocciuta, selvatica e purissima manifestazione di libertà creativa.
Dopo la prima mondiale per il Forlì Open Music Festival del 2017, approda al festival jazz di Correggio, organizzato dal Comune in collaborazione con Jazz Network e inserito nel lungo cartellone della storica rassegna Crossroads, il progetto italiano di Rob Mazurek, esploratore instancabile del pianeta Suono, sia in solo, sia con le entità mutanti “Chicago Underground”, Exploding Star Orchestra, oppure con Star Splitter, il duo con il trombettista bresciano Gabriele Mitelli, proprio in questi giorni in tour in Italia.
La formazione è stellare, e mantiene i viaggi che promette: a fianco del leader (piccolo trumpet ed elettronica) ci sono Fabrizio Puglisi al pianoforte, Danilo Gallo al basso elettrico, Pasquale Mirra al vibrafono e Cristiano Calcagnile alla batteria. Deve trattarsi del terzo, forse quarto concerto del quintetto, ma l’intesa ha un che di telepatico: ascoltiamo dunque avvisaglie, notizie da Altrove indicibili, come un incontro tra il Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza e il Miles Davis di Bitches Brew: labirinti, capriole, fauna del fondo e poi, improvvisa, la fine. Sette composizioni a metà tra struttura e improvvisazione, lampi da un vaso di Pandora senza fondo, vivide e luminose dimostrazioni acustiche del fatto che, come dice il poeta norvegese Rolf Jacobsen, l’epoca delle grandi sinfonie è finita: restano frammenti, detriti, il caos biologico delle forme di vita di abissi dove la luce giunge una volta ogni mille anni. I toni spuri dell’elettronica fanno immaginare una navicella aliena rapire gli indios nella selva. Cosa stiamo ascoltando? Noise-bop? Soul del futuro? Worldelectro? Non importa, conta solo aprire le orecchie e lasciarsi portare da questi cinque stregoni, come fossimo a un rave pagano sulle rive del Rio delle Amazzoni. In altri frangenti sembra di stare in una stanza sopra le nuvole dove Don Cherry e Steve Reich giocano a ricombinare ritmo e armonia, è la poesia dell’istante, radure inattese, ricordi, satori, poi si plana su quanto più di vicino a una ballad ci sia dato di sentire questa sera: “Father’s Song”, in memoria del padre di Mazurek, come un Bill Evans visto dalla Stazione Spaziale Internazionale, toccante, delicata e monumentale. Successivamente i cinque si gettano a testa bassa in un’improvvisazione su partiture grafiche tridimensionali per vedere bene le quali è necessario indossare appositi occhialini: fibrillazioni bellissime, profezia, viandanza, rabdomanzia, finché a un certo punto il fiume elettroacustico non sfocia in un vasto oceano Stockhausen. In seguito un 6/8 che sa di scale celesti fiorisce da un ritmo nella foresta cosmica e psichica; Mirra tiene il beat percuotendosi il corpo, quasi un’invocazione a qualche divinità complice per un rito pagano e boreale. Ci ritroviamo in un posto caldo, accogliente, tra i pianeti di Sun Ra, un baobab secolare, profili di Americana (gli spigoli dove il basso di Gallo va a levare la polvere) e altro che davvero non si sa come dire, bisognava essere lì ed ascoltarlo. L’ultimo numero è un acrobatico pezzo di bravura glitch-jazz che può rammentare il grande Vert di Nine Types Of Ambiguity o del Köln Konzert (dischi invecchiati benissimo, entrambi pubblicati diversi anni fa dalla Sonig, l’etichetta dei Mouse On Mars). Una sequenza ipnotica di quelle che fanno battere il piede, poi una pioggia di eventi incatalogabili: carillon, veglie, fuga, attesa, Calcagnile a governare perfettamente questa tempesta di massi poderosi e lievissimi, Puglisi a frugare nel pianoforte (notevole l’intesa con Mirra, già testata sia nel loro duo che nell’ensemble Guantanamo), ogni interprete spinge sempre un passo più in là, è una musica animata da una febbre inesorabile, il suono di una caduta dall’Olimpo o di una ascesa al Monte Everest. Poco cambia, perché le normali distanze e proporzioni si annullano in questo vortice caleidoscopico: vertigini ed ebbrezza, e comunque sia musica preziosa e necessaria, una profonda e cangiante forma di gospel laico e futuribile che (ri)attiva le sinapsi ed accende un lume di speranza per l’umanità ancora capace di sentire, suonare, ascoltare.
Dopo i brividi della prima serata, si resta su altissimi livelli anche con il concerto del sabato, che vede protagonista il violoncello di Vincent Courtois, accompagnato dal sax tenore di Daniel Erdmann e dal tenore e dal clarinetto di Robin Fincker. Si cambia totalmente scenario e si passa a una musica ariosa, cantabile, lieve, perfino scherzosa in alcuni momenti, capace poi di mostrare inquietudini ripide come quelle di un Louis Sclavis (che con il clarinettista francese Courtois suona da molti anni). Composizioni ispirate alle storie di Jack London, in bilico tra minimalismo, musica da camera, rock metafisico, colonne sonore per film esistenti e inesistenti (si chiama proprio Bandes Originales il primo album del trio, del 2017) e jazz come collante e approccio senza paraocchi ai materiali. Fughe e foghe senza base ritmica, con un 6/8 ficcante grazie al lavoro al violoncello del leader, un blues sornione, strane, imprendibili creature che appunto sfuggono alle definizioni nel fiume del Suono dove tutto scorre: detriti, le ruggini nobili della classica, pepite folk, il serissimo gioco del guardare avanti, verso l’orizzonte che non sappiamo, assumendo però una postura desueta. Per qualche strana associazione mentale mi torna alla memoria il capolavoro dei Fratelli Coen “Fratello Dove Sei”? Forse perché ha un che di errabondo, questa musica, di epico. Ogni traccia porta il titolo di una storia dell’autore di Zanna Bianca. “To Build A Fire”: il fascino dell’essenziale, del disadorno. Composizioni nitide, perfettamente calibrate, in felice bilico tra ironia e rigore, dall’ampio respiro eppure sempre dense di attese e continue sorprese. Molto azzeccata la scelta dell’impasto timbrico, che fa camminare per aria i pezzi, come avveniva in un capolavoro d’epoca (1981) come Folk Songs del trio Gismonti Garbarek Haden. “South Of”, l’ultima storia: segnali di fumo, pellerossa, il grande romanzo americano che tutti abbiamo in testa come un privatissima epopea personale o come il richiamo della nostra intima foresta; poi una giga irlandese, praterie sconfinate, oppure un minimalismo sensuale e giocoso. Il jazz è una storia bellissima e aperta che, come in “Esercizi di stile” di Raymond Queneau, può essere raccontata in novantanove variazioni (almeno), con buona pace dei sovrani(sti) di un galateo che non esiste più da tempo. Complimenti alla direzione artistica per aver portato a Correggio due concerti letteralmente straordinari, che avrebbero meritato il tutto esaurito.