RINGWORM, Snake Church
Formatisi a Cleveland all’alba degli anni Novanta e da sempre legati agli Integrity (loro numi tutelari e compagni di scorrerie), i Ringworm sono passati indenni attraverso i cambiamenti di umore e di fortuna di quella scena che ha visto nella Victory Records e nella definizione di hardcore new school i suoi punti di riferimento. Stiamo ovviamente parlando del giro che accomuna gli autori di Snake Church a un’orda di band che da sempre dividono il pubblico di riferimento tra strenui seguaci e feroci detrattori, devoti adoranti e inquisitori implacabili. Il nuovo album su Relapse non fa nulla per cambiare le carte in tavola, continua a profondere violenza e cattiveria a piene mani, devasta ogni cosa al suo passaggio grazie alle vocals urticanti e al riffing che lascia collidere attitudine in your face e rasoiate metal, tra massicce dosi di thrash e rimandi alla scuola death a stelle e strisce, accelerazioni furiose e groove un tanto al chilo. Il manico c’è, i venticinque anni di esperienza hanno oliato al macchina a dovere e le hanno fatto raggiungere una portata distruttiva davvero difficile da contenere. In più la band ha una buona capacità di spezzare la tensione quando si fa troppo pesante e di trovare i giusti correttivi per donare un minimo di varietà al tutto. Quel che resta alla fine della corsa è però anche il dubbio sul valore effettivo che possa avere oggi una proposta del genere, tanto figlia di un preciso momento storico quanto incapace di evolversi in qualcosa di realmente differente da sé, perché alla fine della fiera a prevalere è quella sensazione di già ascoltato e già esplorato, come se nessuno avesse provato ad andare oltre il prevedibile per lasciare il pubblico davvero sorpreso. Si potrebbe obbiettare che questo discorso può valere mutatis mutandis per ogni gruppo che abbia seguito con coerenza e determinazione la propria strada e non abbia accettato di rimettersi in gioco per apparire attuale e alla moda, per cui lasciamo decidere a voi se considerare questo come segno di coerenza o di ottusa ostinazione fuori tempo massimo. Quello che si può scrivere, intanto, è che siamo in presenza di un lavoro che assolve egregiamente al compito prefissato e non fa prigionieri, figlio dell’incontro scontro tra metal e hardcore prima dell’avvento del metalcore, cresciuto con il thrash più che con il punk, tanto che ad apprezzarlo di più saranno i fan degli Slayer, non quelli dei Black Flag. In fondo questo è quanto dichiarato sull’etichetta, senza tentativi di raggiro o promesse illusorie. Prendere o lasciare, a voi la scelta.