Riccardo La Foresta: la vera essenza del tamburo
Riccardo La Foresta vive a Modena ed è un percussionista, un compositore e un improvvisatore, questo secondo il comunicato stampa allegato a Drummophone, il suo disco uscito quest’anno per Kohlhaas e registrato da gente che conosciamo: Lorenzo Abattoir a Modena, presso l’OvestLab, tranne il sesto e ultimo episodio, catturato da Renato Grieco presso il Museo Nitsch di Napoli, credo nel corso de La Digestion, un evento del quale vi abbiamo parlato spesso. Del mastering si è fatto carico un punto fermo dello scenario sperimentale italiano, Giuseppe Ielasi, mentre dell’artwork si è occupata Natália Trejbalová, artista che da tempo frequenta le musiche irregolari italiane (solo andando a memoria, ricordo che ha collaborato con Giovanni Lami). Mi sono interessato al lavoro di Riccardo perché ormai da qualche anno mi trovo ad aver a che fare con “batteristi aumentati”: periodicamente mi arrivano dischi realizzati in solitaria da qualcuno con davanti un drum kit, dei microfoni, degli effetti e a volte un laptop, mentre una volta non mi succedeva mai. Anche giornali (infinitamente) più grossi si sono accorti di questa cosa e allora trovo che sia giusto approfondire, specie quando l’artista è italiano. Drummophone, per quanto mi riguarda, è un album potente, incombente e terribile, l’animazione di una creatura – se non spaventosa – capace di ucciderti in qualunque momento senza sforzo: tra Jason Van Gulick e Cober Ord, se devo dare riferimenti incomprensibili, come fanno quelli veri. Riccardo la pensa diversamente da me, come vedremo, ed è giusto così. In più spiega cos’è un drummophone.
Domanda di riscaldamento: a che età hai cominciato a suonare la batteria e perché?
Riccardo La Foresta: A 18 anni, ascoltando i Rage Against The Machine ho telefonato all’unico amico che aveva una batteria in casa e gli ho chiesto di farmela provare. Arrivato nella sua tavernetta, mi ha fatto accomodare dietro il set, mi ha passato le bacchette e mi ha detto: “Si fa così, Tum – Cha – Tum – Cha (mimando il gesto) e mi raccomando l’hihat deve essere completamente aperto!”. Suonava punk HC.
Noi siamo un sito di punk. Tu esci dal Conservatorio. Cosa hai imparato lì? Alcune persone che ho intervistato e che erano uscite dal Conservatorio, mi hanno raccontato che una volta fuori hanno dovuto dis-imparare dal Conservatorio. Immagino si possa scrivere un libro su questa domanda, ma forse puoi semplificare.
In Conservatorio ho imparato ad ascoltarmi. Sta a te valutare cosa stai facendo e liberarti dai preconcetti: studiare uno strumento è una grandissima occasione ma può essere anche una trappola letale. Credo di aver imparato tanto.
Ho letto che hai suonato con Lê Quan Ninh. Non è la prima volta che il suo nome entra in una delle mie discussioni con un batterista “difforme”. È un tuo riferimento?
Ninh è un riferimento sia a livello musicale che umano, una persona speciale con un’energia travolgente che passa attraverso la sua presenza sempre, anche quando non suona, impossibile non subirne l’effetto. Spero di poter suonare di nuovo presto con lui.
È vero che emergono sempre di più batteristi non ortodossi che re-inventano lo strumento e sono in grado di registrare interi album da soli? Oppure sono io che ho scoperto tardi qualcosa che già c’era? Belfi, Gregoretti, Rohrer, Keszler, Greg Fox, Will Guthrie… ma posso andare avanti chilometri… Su Wire, da poco, è uscito pure un articolo cumulativo, intitolato “Resetting the Rhythm”…
Le percussioni in generale sono state un punto di riferimento nell’evoluzione e nella ricerca timbrica dell’ultimo secolo, per tutti gli strumentisti e soprattutto per i compositori.
Uno dei termini più inflazionati nella didattica della batteria è “orchestrare”.
Piatti, tamburi, campanacci, metalli, legni: il drumkit è un’accozzaglia dettata dalle necessità stilistiche e la sua conformazione ibrida ne dichiara l’assenza di limiti. Questa varietà ci permette di indagare in mille direzioni ogni dettaglio dello strumento e di scoprire sempre nuove possibilità; il futuro della batteria è nella scomposizione, almeno il mio.
Mi spieghi – come se io fossi un bambino piccolo – che cos’è il Drummophone?
Un tamburo suona solo se lo percuotiamo? La mia ricerca degli ultimi anni mi ha portato a rivalutare ruolo e gesto percussivo.
Il Drummophone è uno strumento a fiato, o meglio, un aerofono, ricavato da un piatto, un tubo e un tamburo. Ad oggi, posso contare svariate evoluzioni del Drummophone, ognuna frutto di soluzioni tecniche e costruttive differenti.
Tramite la pressione dell’aria, attraverso il piatto, posso far vibrare le pelli senza percuoterle.
Il suono prodotto è forse la vera essenza del tamburo, la sua pura risonanza e vibrazione.
È un processo in costante evoluzione, l’invenzione di un linguaggio nuovo per uno strumento che non esiste.
Da ascoltatore di Lustmord e isolazionisti vari, non posso non notare come spesso voi “batteristi aumentati” riusciate ad essere spaventosi e spettrali, il che è probabilmente il motivo per cui mi trovo spesso a parlare di voi. È una mia impressione? Il tuo ultimo lavoro, Drummophone, non ti suona spesso minaccioso e sinistro?
Sono anni che mi viene detto che dovrei comporre colonne sonore per film horror… capisco da dove nasca questa idea, ma la musica è davvero più complessa di così.
Un dialogo, il sesso, una risata… tutto si basa sul contrasto e sull’articolazione delle nostre emozioni. Questo equilibrio può essere tanto complesso quanto abbiamo interesse e curiosità nell’andare in profondità di quello che facciamo e che siamo. La mia musica può suonare minacciosa e sinistra, oppure no, l’intenzione non è quella onestamente. Ognuno ha il suo ascolto privilegiato e la sua percezione, qui sta la vera bellezza.
Di sicuro negli anni ho preferito ascoltare dischi con impatto fisico su di me, senza melodia, senza gabbie rigide a contenerli. Quanto è importante per te impattare fisicamente su chi ascolta?
L’impatto fisico è una cosa che mi interessa maggiormente nei live.
Per antonomasia i percussionisti sono schiavi del grande gesto e la presenza fisica è implicita per il performer, ma per chi ascolta, al di là dell’energia visiva che viene trasmessa, ci sono diversi altri fattori in gioco. Alla base, il mio lavoro tende a scardinare questa dicotomia gesto-suono, in favore di un ascolto più attivo e meno viziato dall’occhio.
Sull’impatto fisico/sonoro invece, solo recentemente ho cominciato ad amplificare il mio set, perché prima lo volevo rigorosamente acustico e naturale. Una necessità che ha a che fare con lo spazio, il corpo e la percezione psicofisica nel loro insieme.
Sempre a proposito del tuo nuovo disco. In che modo lo spazio intorno a te diventa parte delle tue tracce? È una domanda che ho posto anche a Jason Van Gulick.
Il suono ci avvolge solidificandosi nell’architettura, parafrasando una frase attribuita a Goethe.
Mi piace pensare in primis al mio strumento come una cosa viva e vitale, un’architettura vibrante che interagisce con me e con lo spazio. Questo lp è registrato volutamente in luoghi il cui riverbero è importante, il carattere dello spazio è restituito in ogni suono e scolpito in ogni solco del disco.
Suoni dal vivo, col duo/trio Sho Shin e c’è una testimonianza su disco di un tuo live con John Butcher. Quanto ti girano i coglioni ultimamente? Credi di poter riprendere? Credi che gli avvenimenti di questi mesi abbiano un po’ spezzato le gambe all’underground? Che pensi di fare in futuro su questo fronte?
Non mi girano i coglioni, non ora almeno, anche se la musica dal vivo è stata incoronata chimera di questa pandemia. Ho avuto la fortuna di lavorare in questi ultimi mesi suonando in Italia e all’estero, ho pubblicato una release digitale ed un lp, oltre a fare diversi concerti online: quello che potevo fare l’ho fatto.
Ho continuato come nulla fosse, forse il ruolo dell’artista è anche questo: non tanto essere al di sopra della sconfitta e delle difficoltà, ma farne parte. Imparo sbagliando e convivo con l’esigenza e la necessità di creare.
L’underground ancora non ho capito cos’è (ride, ndr).