Rhabdomantic Orchestra, l’alchimia del ritmo

Essere musicisti e allo stesso tempo produttori al giorno d’oggi sembra rispondere a quella deviazione culturale e sociale del nuovo millennio per cui bisogna diventare necessariamente multitasking per poter rispondere nell’immediato a qualunque esigenza si prospetti sul nostro cammino. Niente di più sbagliato se pensiamo ai tanti artisti molto quotati, del passato e del presente, che hanno incarnato spesso il doppio ruolo, e non per questioni di scarsa disponibilità economica in seno ad una crisi che non accenna a fermarsi ma per libera volontà di plasmare loro stessi le proprie creature sonore. Manuel Volpe fa parte di questa categoria, diviso tra la spinta artistica nell’esternare ciò che cova dentro, intrinsecamente correlato all’arte della maieutica, e il desiderio, attraverso il ruolo di produttore, di dare forma a quel qualcosa di impalpabile (ma dai contorni ben definiti) che è la musica.

La Rhabdomantic Orchestra – collettivo jazz aperto a influenze etno – è sempre stata una palestra emotiva, culturale e professionale che gli ha permesso di essere questo e quello, ma anche altro nella continua ricerca del proprio posto nel mondo com’è esercizio di ogni individuo, con la differenza che Manuel il posto lo ha già trovato, ed è dove ci sono degli strumenti musicali, sopra il palco o dentro uno studio di registrazione. E quella soglia, presente in ogni suo disco, è la linea da attraversare ogni qualvolta vuole essere l’una o l’altra cosa, nel rispetto di chi lo circonda e delle musiche da cui trae ispirazione. Almagre, l’ultimo disco della Rhabdomantic Orchestra uscito a maggio 2022 per Agogo Records, è un’altra fase, la terza, di un percorso ben preciso: dovrebbe essere quella finale, ma di un ciclo che ne presuppone sicuramente l’inizio di un altro.

Una mattina fredda sono stato dentro il suo quartier generale, il Rubedo Recordings, per fare due chiacchiere davanti ad una stufa accesa.

Riguardo Almagre, mi ha colpito questa cosa dei colori. Il precedente era sul bianco e questo è sul rosso.

Manuel Volpe: Oltretutto il primo era sul nero, uscito però a mio nome e non come Rhabdomantic, che si è formata, come entità, dopo. È un po’ un gioco a ritroso ma non so fino a che punto il mio subconscio abbia lavorato in tal senso.

Partiamo allora dal nero: perché il nero?

Sono le tre fasi alchemiche, tra l’altro anche questo studio si chiama Rubedo Recordings, quindi la terza fase… si è creata un po’ in maniera abbastanza casuale perché me ne sono reso conto dal secondo disco, quando stavo scrivendo Almagre. E nel rosso ho tolto Manuel Volpe da davanti, quindi se ci penso è stato un po’ il seguire quel tipo di ispirazione. Un momento in cui, ancora nell’ottica di un cantautore o autore, il mio nome, quindi il mio ego, la mia voglia di mettermi in gioco e accollarmi addosso un progetto era una cosa importante per riuscire a capire: avevo 23 anni, era un modo per iniziare. Da lì in poi, dato che con il primo disco giravamo in sei e a registrare eravamo una decina di persone, ho cercato di dare un’identità a questo collettivo di persone che sono sempre cambiate, a parte lui che c’è dall’inizio (e indica Simone Pozzi, lì con noi, ndr), anche perché si stava creando un suono, fino a quel momento immaginato, da scoprire insieme a queste persone grazie alle caratteristiche individuali di ognuna di esse. Poi nell’ultimo disco la volontà di smettere di cantare, passare nell’ombra più totale, togliere la parte di ego e decidere di fare quello che avrei voluto fare senza i limiti della mia voce, del mio modo di intendere la musica, di quello che io potevo dare ponendomi al centro. Ho scoperto che mettendomi da una parte potevo fare ancora di più, perché riuscivo a prendere gli spunti e le idee di tutti quanti e le caratteristiche senza dover mettere per forza la mia impronta come principale. Il gioco dei colori era diventata questa cosa qui, ho una certa curiosità per l’esoterismo. Dall’altra parte, il mio amico mi ha fatto notare che in ogni titolo del disco c’è sempre un’idea di soglia, ovverosia una cosa che è al punto di cambiare. Albore (titolo del disco del 2016 della Rhabdomantic Orchestra, ndr) è un momento tra la notte e il giorno, quel brevissimo istante, e in Almagre il gioco è forse nell’idea della copertina in cui la soglia divide un mondo più surreale con questo occhio, il deserto un po’ Dalì, e il mondo esterno più sterile, freddo, fermo, quasi morto, che c’è alla base. Una serie di cose che alla fine, per giochi mentali o speculazioni fini a sé stesse, possono creare una sorta di continuità, e siccome su tutti sei la seconda persona che ha notato questa cosa dei colori, ho la risposta ma che non è necessaria. Forse fa più bene a me che a chi ascolta (risate, ndr) rivedere il processo non premeditato che si è creato. Però sapevo che non volevo più cantare, volevo divertirmi a suonare. Cantando è più complesso, dovendo gestire anche una sorta di conduzione dell’orchestra durante il concerto sapevo di essere troppo suggestionato da quello che succedeva sul palco, soprattutto nei primi concerti dopo il disco, da non riuscire a concentrarmi davvero. Volevo comunicare con loro ma ero davanti, dovevo cantare, stare in una situazione più statica. Ora sento di poter dare anche le spalle al pubblico, dirigere meglio tutta l’orchestra senza dovermi preoccupare troppo di chi ci guarda, perché ora è compito di Maria (Mallol Moya, cantante colombiana voce di Almagre, ndr).

Hai iniziato sostanzialmente da solo e poi hai fatto entrare persone, com’è stato il processo?

In generale, il metodo di scrittura e il pensiero dietro ogni disco è comunque solista. Per forza di cose non possiamo fare una prova a settimana, già è tanto quanto riusciamo a fare così. Quindi tutto parte da me, e nell’ultimo disco in realtà parte da me e Simone, perché vivendo una quotidianità qui ci si confronta, si buttano giù idee, si sperimenta e quindi concentrare tutto sulla sezione ritmica è un po’ un altro modo per mettermi e metterci in luce, è stata la base sulla quale abbiamo costruito quest’ultimo disco. Però forse sì, ho un po’ voglia di band, stare insieme, fare, dire, immaginare, togliermi un po’ di responsabilità nonostante comunque ci sia un grosso apporto da tutti, anche se c’è sempre una sorta di direzione artistica mia, quasi da produttore, e invece mi piacerebbe di più questo approccio che vorrei raggiungere.

A proposito di questo, tu fai anche il tuo produttore. In questa versione riesci a scindere la parte da musicista da quest’altra? Come si incastrano i due ruoli? Devi guardarti dall’esterno anche grazie all’altra tua professionalità.

Quello sicuro, è un po’ un esercizio che fai. Quando produci il disco di qualcun altro devi calarti molto dentro, trovare il modo per far sì che in qualche forma parli un po’ di te anche se non è vero, ma perché è l’unico modo per essere coinvolti e riuscire a prendere le decisioni “giuste”. In generale c’è un grande esercizio: Almagre è arrivato dopo due, tre anni in cui ho prodotto tanti dischi di altre persone, quindi capendo delle questioni, problematiche, cose che mi colpivano di alcuni brani, esperienze che bene o male ho messo dentro la produzione. Mi piacerebbe farmi produrre un disco da qualcuno, scindere i due mondi e confrontarmi di più però per comodità, questioni logistiche, budget, non lo fai. Adesso come adesso sto cercando di farlo con i musicisti, mettere più in discussione le mie idee; molti di loro sono ormai nel progetto da tanti anni e hanno bene o male capito la direzione che può avere Rhabdomantic Orchestra, sento che sono più sicuri, hanno più idee da mettere sul piatto.

Nel comunicato si parla di questo incontro con Maria Mallol Moya come ispiratrice di Almagre.

Soprattutto per la parte conclusiva, avendo trovato i brani più o meno definiti al suo arrivo. L’immaginario che mi ha guidato nella scrittura era legato a questo realismo magico sudamericano, e avevo desiderio di trovare delle cantanti che potessero essere testimoni vere di queste visioni, finché poi ho pensato a lei che era a Torino nel periodo della pandemia. La conoscevo già ma sotto altre vesti: batterista di un gruppo garage punk, nel progetto con Gianni Giublena Rosacroce abbastanza affine da un punto di vista concettuale, con Naturamorta più nella parte della psichedelia, suoni molto più eterei. L’idea di provare ad inserirla era inizialmente una sorta di sfida per poi scoprire che queste cose le conosce, con quella cultura lì tutta la parte della musica latina l’ha ampiamente masticata ed è stato molto bello arrivare al punto in cui lei proponeva delle idee e il brano leggermente cambiava forma. Ha un avuto un peso specifico notevole nel quadro generale.

Negli ultimi due anni, almeno, c’è questa crescente attenzione in Italia per la musica sudamericana, africana, l’afrobeat, il jazz. Per te è moda oppure ti rendi conto sia la semplice realtà dei fatti, essendo territori in cui l’età media è molto bassa e quindi dove c’è gioventù ci sono innovazione, spinta e creatività maggiore?

Sicuro è stato un punto di svolta, se ci pensi gran parte della storia della musica è legata al ritmo: il jazz, lo swing, l’elettronica, tutto quel modo di intendere il tempo. Provare ad appropriarsi di cose altrui, e qui ci sarebbe una parentesi da aprire, ha fatto sì che potessero essere messe in campo nuove idee, se pensi al rock – ai Goat, per esempio (annuisco perché l’ultimo disco riassume bene questa sua affermazione, ndr) – o al pop, che prende cose da quel calderone lì. La vedo come una cosa necessaria, poi diventa moda perché è un suono nuovo per parecchie persone. Se pensi all’afrobeat, l’accentazione è molto diversa rispetto al semplice quattro quarti canonico a cui siamo abituati, al modo di intendere il ballo, perché fondamentalmente il ritmo si traduce in un movimento del corpo. È molto diverso e lì la moda sta nel fatto che effettivamente nei dancefloor le persone si divertono, è una musica che ti tiene attento a livello fisico, non c’è tanto di concettuale nonostante sotto ci siano degli arrangiamenti complicatissimi. Consideriamo anche l’evoluzione dei media che ci permette di ascoltare tutto, tipo il funk iraniano degli anni Sessanta, e di meravigliarci con cose che troviamo sulle piattaforme di streaming, non è più la chicca pescata dal dj di Berlino chissà dove. Il fatto di essere più esposti a tutto quello che è successo mentre noi pensavamo ai Beatles. È un passaggio necessario.

E riguardo il tema dell’appropriazione culturale? 

Per noi l’idea era sempre quella di non far finta di essere il gruppo afrobeat di Torino e quindi prendere tante cose, posizionarle nel Mediterraneo, ciò che abbiamo più vicino, e tradurle in un suono che sia nostro: non è afrobeat, latin, mediorientale. Cercare di unire queste cose con un gusto che può essere più classico, perché nel live c’è parecchia improvvisazione ma nel disco è tutto scritto, con un approccio più occidentale a livello di musica e orchestrazione. Sono piccole cose che mi fanno dormire sereno (risate, ndr). Ho fatto un esperimento con un cantante nigeriano, qualcosa più simile all’afrobeat, dei concerti di musica da ballo etiope con una cantante etiope, è stato il motore per studiare, capire come funziona e come poterla tradurre, ma non avrebbe avuto senso fare un gruppo di musica etiope a Torino. Bisogna avere rispetto. L’esplosione della Cumbia, di tante cose, al di là della moda, del fatto che funzionino nel locale e nei festival, sono musiche che hanno una storia molto spesso delicata fatta di temi politici e culturali che forse non possiamo capire e comprendere, quindi imitarla è un buon esercizio come musicista per crescere ma sempre con rispetto.
Credo poi la cosa più preziosa sia l’incontro. Per noi il punto di svolta è stato proprio incontrare queste persone, capire delle cose, in particolare con musicisti senegalesi, prendere gli schiaffi (risate, ndr) perché dopo che ti indicano come fare, al primo stop non sai da dove ripartire contando in un modo completamente diverso, e ti trovi spiazzato.

Simone: La vedono proprio in un’altra maniera. Tu stai lì a contare ma poi dici “no, non è così”.

Manuel: Il pezzo inizia ma al primo stop quando devi ripartire sei sempre cappottato, ti guardano per dire “no, è sbagliato”, tu ci pensi un attimo e dici “ah ma allora è dieci prove che sto sbagliando!” (risata fragorosa di gruppo, ndr). Se c’è un lavoro di incontro, di arricchimento, può essere molto positivo. Prendere e inglobare queste cose e vedere che effetto hanno su di te, non semplicemente imitarle, vestirsi in un determinato modo, perché poi sotto non c’è niente. Molto spesso mi è capitato di notare una superficialità di base, le band che iniziano a fare questo percorso ispirate a loro volta da altre occidentali che lo fanno, e di conseguenza chi fa Cumbia si ispira magari al trio di Londra saltando probabilmente tutto ciò che viene prima, curulao, vallenata, generi che hanno a che fare con culture antiche legate alla vita nella foresta, a certi ritmi e alla loro reale provenienza. Quando un giornale importante di musica dice che in quel gruppo c’è l’afrobeat e io non sento la chitarra in quel modo, la pulsazione, sento una sonorità che in realtà è Tuareg, stai mischiando il musulmano con cose che arrivano dai Yoruba, quindi sono diversi. Nonostante tu pensi che siano comunque lì, abbastanza vicini perché l’Africa è Africa, non è così, è un territorio sconfinato, non puoi nemmeno a livello etico mischiare le cose. Si parla di religioni, culture, ritmi, visioni della vita, nel giornalismo spesso si trovano le scorciatoie, la parola del momento è Afrobeat e quindi qualsiasi cosa arrivi dall’Africa è Afrobeat.

Un po’ come quando si usava l’etichetta del Parental Advisory per far comprare i dischi agli adolescenti che, si sa, devono andare contro a prescindere, e magari era il disco delle Spice Girls con mezza parolaccia.
Tornando all’ultima uscita della Rhabdomantic Orchestra e della domanda marzulliana che tocca a tutti: quindi Almagre che disco è?

(silenzio)

Simone: ’na bomba! (risate, ndr)

Beh, io chiuderei così…

Simone: Disco complicato… o forse no. Il più ballabile che abbiamo fatto, forse.

Manuel: Live è molto più bello, nella versione in studio ti chiede attenzione, un certo tipo di approccio all’ascolto e a volte è un po’ divisiva. Però siamo contenti perché nella sua nicchia parecchie persone stanno acquistando il vinile e magari su Spotify lo ascolti poco ed è una sorta di piccolo successo. Le vendite stanno andando molto meglio degli ascolti, il che significa che c’è una certa attenzione che risponde a quel tipo di approccio all’ascolto alla base di questo disco: mettersi lì, farsi un po’ il suo viaggetto. Per me è prezioso.

Due parole su tutti gli altri musicisti? 

C’è un nucleo fisso da diversi anni, più o meno dall’inizio: Simone che suona la batteria, Maurizio Busca che suona praticamente tutti gli strumenti, in ogni disco cambia il suo ruolo e in questo è sassofono tenore, clarinetto basso. La cosa bella di Almagre è la presenza di un po’ di persone nuove che non sono nemmeno di Torino e conosciamo, stimiamo, con cui ci siamo incontrati diverse volte e che, complice la pandemia, ho potuto contattare per una collaborazione più diretta. Per esempio Fabio Mina, che suona poi con un sacco di gente come Marco Zanotti, anche lui nel disco alle percussioni: sono nel giro della “world music”, per semplificare, e anche loro hanno avuto ruoli abbastanza determinanti. Nonostante ci siano state delle partiture hanno dato comunque dei contributi fuori da quanto scritto, come nel caso di Fabio, le cui parti scritte direttamente da lui sono state fondamentali su sezioni intere create poi apposta su quanto lui aveva improvvisato per il semplice gusto di farlo. Poi sono tutti musicisti che lavorano e suonano in mille progetti: Stefano Cocon che ha collaborato anche con Buena Vista Social Club, Simone Garino… dovrei stare ore solo per raccontarti di loro perché ognuno ha una storia importante dietro. Tutte persone che in questo momento sono abbastanza determinanti, equilibri che poi sono necessari anche nei live.