RENAUD GABRIEL PION, Hinterwelt In Silico
La prima parte del titolo è riconducibile alla nietzschiana espressione Hinterwelt laddove in silico prende a prestito l’espressione di laboratorio in vitro operandone una traslazione verso il mondo dei computer: denominazione già programmatica per il nuovissimo lavoro di Renaud Gabriel Pion, clarinettista ed autore parigino per il quale eclettismo e verace curiosità sono attributi che almeno in parte renderanno le coordinate del relativo mondo creativo.
Spiazza, in effetti, il drastico salto concettuale operato nei confronti del pur recentissimo, precedente lavoro Spiritus, ambizioso polittico post-minimalista, che configurava una ibrida e poliedrica dimensione sacrale affidandola ad un’insolita orchestra da camera, arruolante anche il prolifico chitarrista Bill Frisell ed il controtenore Sébastien Fournier.
Fondata sul dichiarato instrumentarium “elettroniche lo-fi basate su campionature, con strumenti collegati”, la nuova opera assume un soundscape ben più fortemente investito sul mondo digitale, ed esordendo nella pulsante “Zeitgeist” la musicalità si conforma nel solido respiro dell’ancia, contornata dalle ludiche elettroniche, esitando in vibranti materiali che potranno, in parte ma a non troppa distanza, riportare alla mente certe esperienze dai tardivi anni ’70 alla Time Zones (di Richard Teitelbaum & Anthony Braxton) ma ne è differente l’organica propulsione e la ben maggiore strutturazione ritmica; la successiva “Russian” affida alla voce distorta del clarino basso una solida poetica medievalista, turbata da eversive figurazioni di suono sintetico.
Un inatteso passaggio vocale affidato al temperamento di Lisa Papineau, punteggiato dall’alito delle ance d’ebano in sovra incisione in “Radiance”, quindi antifonale austerità nella concentrata “Doppelgänger” e rarefazione atmosferica nell’estraniante “Cyborg”, succeduta dalle fibrillanti elettroniche di “Tala” (apparentabile al mondo di un John Surman) e dagli orientalismi di suggestiva classe in “Katana 2”, cui s’avvicendano ulteriori passaggi “nipponici” quali la cantilenante “Buraku” e la metropolitana scansione di “Neo-Tokyo” (non priva di nervoso carattere da soundtrack).
Si perviene all’epilogo nell’astratta e destrutturata danza percussiva di “Artificial”, che suggella la successione di un album palesante dell’autore e performer l’attitudine a rimettere nettamente in gioco la propria identità creativa: l’originale fusion cibernetica di corpo ruggente del self-making-man d’Oltralpe, lungo una sequenza di titoli in apparenza pervasi da un certo gusto Cyberpunk, s’esplicita in una musicalità da laboratorio (come da programma) ma non per ciò difettiva in quanto a coinvolgente spirito musicale e carismatica progettualità.