REID ANDERSON – DAVE KING – CRAIG TABORN, Golden Valley Is Now
Frutto tardivo di una carta bianca a Dave King al Walker Art Center di Minneapolis nel 2010, Golden Valley Is Now (dal nome della cittadina di 20.000 abitanti che ha visto incontrarsi i tre musicisti) è il primo disco di questa formazione che vede riuniti due terzi dei Bad Plus (King alla batteria ed Anderson al contrabbasso, qui al basso elettrico) più il talentuoso Craig Taborn (sintetizzatori, piano acustico ed elettrico).
Un lavoro che ha il coraggio di azzardare pezzi che suonano certo più come un tentativo di replica dell’Aphex Twin maggiormente conciliante o degli Autechre meno ispidi che di uno dei mille rivoli del jazz. Immaginatevi i Radiohead senza voce e ridotti ad un trio e non sarete lontani, ad esempio in episodi come “Song One”, progressiva ed articolata come “Paranoid Android”, una delle poche tracce a distendersi su durate lunghe. L’incipit lascia a dire il vero interdetti: “City Diamond” sfoggia suoni di batteria elettronica e di synth molto anni ’80, rotondi e pieni, e la costruzione del pezzo lascia il tempo che trova, allungando il brodo molto più del dovuto, per finire poi in un fade out didascalico. Non migliorano le cose con la successiva “Sparklers And Snakes”, che se da un lato può ricordare certe architetture di Thinking Fellers Local Union 282, dall’altro non convince, con scelte timbriche che chi scrive trova scontate e fuori tempo massimo. “This is Nothing” si svela dal titolo, un innocuo vagare senza una idea in territori neutri ed asettici: un fondale buono forse per un film di Muccino, o una pubblicità. Certo, il tocco e la perizia degli interpreti non si discute, ma oltre a quello, resta poco. In particolare stupisce Taborn, sideman eccellente (qui non firma nemmeno un pezzo) e versatile che però qui resta decisamente nelle retrovie. Alcuni pezzi sono francamente un clamoroso buco nell’acqua: “High Waist Drifter” col suo piglio catchy e quasi garage non si capisce dove vada a parare, fino a che non si apre inaspettatamente in un cristallino fiore electro che non fa altro che aumentare i rimpianti per una grande occasione persa. “Polar Heroes” ha l’aria di un esercizio (l’ennesimo, in questa raccolta di tracce che sembra più lunga di quanto non sia), “You Might Live Here” suggerisce di vivere in un posto dove le radio mandano un pop elementare e nemmeno memorabile, per cui entra da un orecchio per uscire immediatamente dall’altro. “Solar Barges” pare aprire per un momento uno squarcio nella fitta coltre di noia che ammanta questo disco con guizzi à la Soft Machine, ma è solo una fugace illusione; anche qui non andiamo oltre lo sterile esercizio di stile, suonato con un’educazione che porta allo sbadiglio. Leggermente meglio va con “Hwy 1000”, ambientale ed ebbra di saudade metropolitana, ma sempre largamente prescindibile. I due minuti da jingle di “The End Of The World” sono il suggello finale su un disco fallimentare, i cui prodromi erano già evidenti nell’interlocutorio dialogo tra King e Taborn sotto il nome di Heroic Enthusiasts. Di entusiasmo qua nemmeno un’ombra lontana, e gli unici eroi saranno gli ascoltatori che arriveranno in fondo al disco senza skippare mai.