REDWOOD HILL, Ender
La catabasi è un tema ricorrente della mitologia di molti popoli antichi e della letteratura di ogni epoca: è tramite il pericoloso attraversamento dell’Aldilà e il confronto con le anime lì confinate che l’eroe ottiene la consapevolezza necessaria per compiere la sua missione terrena. Il percorso dei Redwood Hill può essere considerato come una sorta di discesa agli inferi artistica e psicologica, in quanto la loro musica sembra nascere dall’urgenza di esorcizzare malesseri profondi e paure inconsce.
Il loro esordio risale al 2013 con Descender, titolo quanto mai azzeccato per l’inizio di un viaggio negli abissi della mente: in questo album viene presentato uno stile a metà strada tra l’ombroso doom/post metal degli AmenRa e le più aperte ed evocative atmosfere dei Cult Of Luna di Salvation. Nel giro di un anno esce Collider, con il quale il gruppo danese affina la sua formula basata sul contrasto tra densi muri di suono e trame più rarefatte. Il compito di chiudere quella che potremmo considerare una “trilogia del disagio” è affidato a questo Ender (anche in questo caso il titolo non lascia spazio ad interpretazioni), disco che arriva a ben sei anni di distanza dal precedente e spazza via ogni spiraglio di luce concesso nella pregressa produzione. Ci troviamo tra le mani un’opera monolitica ed imponente sia in termini di durata che di songwriting, caratterizzata infatti da sound granitico ed estremamente cupo spalmato su ben settanta minuti di durata.
L’opener “Singularity” è sicuramente un ottimo biglietto da visita: il brano parte in sordina con lenti accordi di chitarra sorretti dal drumming tribale, per poi crescere di intensità e dare sfogo a rabbia repressa e tendenze autodistruttive. Le successive “No Horizon” e “Descender” alimentano questo vortice di sofferenza con i loro riff abrasivi, i ciclopici saliscendi e lo screaming disperato del cantante, evocando paesaggi intimi devastati da depressione e solitudine. Proseguendo con l’ascolto appare chiaro che la proposta musicale qui espressa mostra maggiori affinità con il blackened-hardcore dei connazionali Hexis, piuttosto che con il post-metal: i desolanti intermezzi che alleggeriscono in qualche misura le strutture di “Polar” e “Nihil” non alleviano in alcun modo la tensione, anzi, la catalizzano in attesa delle successive esplosioni di violenza, mentre “Collider”, unica traccia riservata a chitarre e voci pulite, non sembra altro che l’eco di una ormai tramontata tendenza a ricercare soluzioni più atmosferiche ed elaborate.
Per stessa ammissione della band, la realizzazione di questo “mostro” è stato un processo talmente lungo ed estenuante da creare tensioni in grado di minare la prosecuzione dell’esperienza: il frutto di un simile travaglio non poteva che essere un macigno in caduta libera che non lascia scampo a chiunque si trovi sulla sua strada. Forte di una produzione che ne esalta l’impatto sonoro, Ender riesce senza dubbio nel compito di trasmettere nell’ascoltatore sensazioni di oppressione e angoscia, tuttavia con un minutaggio così generoso era lecito aspettarsi una maggiore varietà di contenuti.