RED KITE, Red Kite
Il nibbio reale è un rapace dalla caratteristica coda rossa profondamente forcuta e molto larga, che gli permette di planare più facilmente. Da questo maestoso animale prende il nome questo ispirato quartetto di torrido jazz rock dalla Norvegia, Red Kite, all’esordio con un disco omonimo per RareNoise Records.
Tra il prog più incline al jazz, vitamine psichedeliche e le fughe in avanti del jam rock, le cinque tracce di questo esordio convincono in pieno, sin dall’iniziale, fumigante e rilettura di “Pthah, The El Daoud”, di Alice Coltrane, riletta secondo l’ottica feroce e selvatica dei Soft Machine altezza Third.
Un suono immerso fino al collo negli anni Settanta, dunque, con le classiche svisate, il groove rotolante, un incedere martellante e pirotecnico, timbri vulcanici, interazione, energia a piene mani, oasi melodiche dove trovare riparo dopo una pioggia di lapilli. Le fitte trame strumentali imbastite dalla band riescono a coniugare delirio e rigore, libertà e matematica, equilibrio e squilibrio, assestandosi perfettamente al crocevia tra universi comunicanti come quello del jazz e del rock espanso. Immaginiamo di fare un salto all’indietro nel tempo e di ritrovarci sulla Second Avenue nell’East Village a Manhattan, New York. Il Fillmore East è pieno zeppo anche questa sera, il vostro pusher di fiducia vi ha dato del purissimo collirio di Jerry Garcia, acido pulito, per viaggi interstellari garantiti, senza effetti collaterali. Il sipario su questa notte elettrica, dopo la buonissima cover introduttiva, si apre con un sabba tra gli ultimi, monolitici Motorpsycho e i Tool prima che perdessero la bussola. Siamo nel mare magnum dell’heavy groove, ma Torstein Lofthus (batteria) e Trond Frønes (basso) sanno mantenere la rotta, mentre la chitarra di Even Helte Hermansen e le tastiere di Bernt André Moen aggiungono lampi, tuoni, saette e grammi di acidità. Certo, forse qualche lungaggine di troppo c’è, ma il lavoro è un live in studio, la temperatura si mantiene costantemente bollente, nonostante i quattro musicisti coinvolti provengano dalle terre del freddo. Anche gli altri progetti che li vedono o vedevano protagonisti indulgono comunque su sonorità simili: Shining, Bushman Revenge, Elephant 9… Squarci di melodia e delicate ombre di Carlos Santana in “Flew A Little Bullfinch Trough The Window”, profumi di West Coast, divinità erotiche e suadenti, memorie del Pat Martino di Bayina (The Clear Evidence), anno di grazia 1968. L’acido sale, sale, assieme al benessere, come nei concerti dei Grateful Dead dell’epoca d’oro, è il momento di scatenarsi nella danza, per prepararsi alle manovre di atterraggio dopo aver lasciato gli ormeggi, sudare, affratellarsi, sparire nella musica e poi tornare a casa. Prima però ci possiamo perdere in vortici e vertigini Allman Brothers Band, con Moen alle tastiere in grande spolvero, e la marea che sale, sale, sale su una sincope lieve e inesorabile mentre la luna palpita in cielo e in petto. Per poi placarsi, nel finale, con un ultimo numero, quasi un’elegia, non lo sai, non lo sai, non lo sai dove vai e dove andrai, te lo ricordano basso e batteria con il loro blues sbilenco, raccolto e ossuto su cui la chitarra innesta fioriture desertiche, mentre la tastiera semina un pugno di note come una preghiera per non perdersi, o per perdersi ancora meglio, tra queste dune immaginarie. Musica che è un invito allo smarrimento e per questo ci fa sentire pienamente in sintonia con quanto cerchiamo nell’ascolto: fotografie sbiadite, suoni come cuscini e coltelli, memorie di un tempo che non sarà più, rivoluzione, l’età in cui eravamo immortali, cieli in loop, spiccioli di luce che miracolosamente non arrugginiscono. Come cantavano Crosby Stills, Nash & Young, music is love.