Raffaele Costantino e l’urlo di Dakar
Vi ricordate quando si urlava dai balconi perché chiusi in casa convinti che saremmo diventati migliori? A parte il renderci conto del fallimento delle nostre intenzioni, l’urlo ha da sempre un meccanismo liberatorio e in alcuni casi aumenta la nostra energia, sconfina l’ambito dei nostri limiti e soprattutto concentra l’attenzione su di noi. Nella lotta ha spesso il carattere propulsivo, come una sgasata improvvisa che permette l’accelerazione e allo stesso tempo indirizza l’energia concentrandola in un solo punto del nostro corpo, tutto quell’urlo in un braccio che si stende per afferrare, tirare, ribaltare, colpire.
“L’urlo di Dakar” parte da questo, dalla Laamb, la lotta tradizionale del Senegal che Raffaele Costantino (Khalab, dj/autore di Rai Radio2) e Megan Iacobini De Fazio (giornalista e autrice per The Guardian, Al Jazeera, Vice) hanno raccontato attraverso un podcast di sei puntate prodotto dalla nuova casa di produzione Hypercast, in collaborazione con Hyperjazz Records. Una partenza, appunto, perché una volta arrivati sul posto, Dakar si è mostrata in tutta la sua affascinante contraddittorietà e l’idea del racconto attraverso la musica si è trasformata nella consapevolezza di dover dire di più attraverso le voci dei protagonisti, creando un podcast ma senza lasciare completamente da parte l’aspetto musicale. Ho raggiunto Raffaele Costantino per parlare a quattr’occhi di quell’esperienza, di radio, di musica del futuro e di divulgazione.
Con Khalab non è la prima volta che hai a che fare con l’Africa e i suoi suoni, ma in questo caso è stato diverso perché dal viaggio a Dakar per registrare un nuovo disco ne è uscito fuori un podcast. Qual è stata la differenza con le esperienze passate? Perché questa volta anche il podcast?
Raffaele Costantino: Perché in generale i progetti che vado a fare in Africa sono strettamente musicali, mentre in questo caso aveva una doppia missione: sono andato, musicalmente parlando, perché ospite dell’Istituto della cultura italiana a Dakar in occasione della Dakar Music Week per un progetto sulla lotta libera senegalese. Volevo andare a registrare i suoni prodotti dai lottatori durante i combattimenti: il fiato, i polmoni, la pelle tutta, quel lavoro lì che volevo condensare all’interno un flusso sonoro basato sulle impalcature dei miei groove, dei beat, dei suoni di Khalab, insomma. Dal punto di vista artistico questa era la missione, poi mi sono reso conto che effettivamente c’era anche tanto da raccontare e quindi l’aspetto divulgativo, la mia seconda anima con cui firmo i miei progetti in questo ambito. Artisticamente di solito non sono molto a mio agio nella parte di racconto, se faccio la musica per me basta e avanza, non sono un amante della didascalia in ambito artistico. Lì, invece, ho sentito proprio la necessità di creare anche una parte di racconto, perché intorno a noi sono successe cose, ci siamo trovati all’interno di una storia e quindi mi sono sentito un po’ in dovere di raccontarlo con quello che in questo momento è il metodo di comunicazione elettivo. Ormai ho una totale malattia verticale riguardo i podcast (ride, ndr), quindi questa poteva essere l’occasione per continuare sulla scia di altri lavori fatti, come “Music and the Cities” o ancora prima quelli per Soundreef. Insomma, mi sono divertito molto insieme a Megan e Marcello Giannangeli a raccontare quella esperienza, la parte sul Rap, la coppa d’Africa, quella vittoria incredibile e storica mai successa ed essere lì proprio quando è accaduto; non era una cosa scontata, quindi ho sentito questa necessità.
Si è sviluppata in itinere, fondamentalmente.
Sì, assolutamente. Quindi ho deciso di firmarla a nome Raffaele Costantino e solo in italiano proprio perché non doveva avere niente a che fare con il progetto musicale che invece paradossalmente è finito in secondo piano, non è più una cosa prioritaria. Anche perché le musiche che ho preparato lì le faccio ascoltare proprio in anteprima nel podcast, è la prima volta che mi succede e non avevo mai sentito una cosa del genere, quindi questa idea mi ha incuriosito. Facciamo ascoltare questo processo creativo direttamente nel podcast dove lo raccontiamo e secondo me non c’è più neanche quasi bisogno di fare uscire una produzione discografica con quel materiale.
Fai anche lo speaker, da un bel po’ di anni e ora i podcast che tu stesso hai detto essere ormai una malattia. Qual è la differenza? Cosa è importante ancora della radio e cosa lo è o lo sta diventando dei podcast?
La cosa importante della radio, e che lo sarà sempre, soprattutto quando si sviluppa su una piattaforma nazionale e hai un amplificatore così grosso come quello di un media tradizionale, è la possibilità di divulgare una serie di informazioni, conoscenze, storie che non sono a disposizione di tutti. La cosa che mi piace di più della radio non è tanto parlare al mio pubblico, a chi già mi segue e mi conosce e che magari non ha più neanche tanto bisogno di me, ma far scoprire quelle cose ad un pubblico distante, distaccato, anche distratto. Dopo 15 anni ancora continuo a ricevere messaggi di persone che mi dicono: “Oh, ma io ho scoperto ieri la tua trasmissione, pazzesco, non immaginavo esistesse un mondo musicale del genere”, gente che piano piano porti all’ovile. Poi, stando sempre in giro per festival è una cosa che vedo anche dal vivo con le persone che mi dicono di aver cambiato il modo di percepire la musica ascoltandomi, quindi la radio è fondamentale altrimenti non mi avrebbero mai trovato. Il podcast, invece, è un contenuto on demand e per questo estremamente contemporaneo. Tu devi sapere che esiste per andartelo a cercare, non sei in macchina che ne so, a Caltanissetta per dire, accendi la radio e senti uno che mette un pezzo Drum n’ Bass e dici “Oh, ma chi è questo?!” Invece con il podcast… (mentre Raffaele sta parlando parte in sottofondo un suono di trombone, ndr)… aspetta che Gianluca Petrella ha iniziato a suonare il trombone, mi sposto.
Eh, anche perché è difficile annullare il suono del trombone, tocca spostarsi parecchio.
Sì, capirai, poi Gianluca c’ha ‘na pigna… (risate, ndr). Ritornando a noi: come ti dicevo, il contenuto on demand è diverso, estremamente contemporaneo, fa riferimento ad una consapevolezza diversa. So cosa voglio andare a sentire, quindi nel momento in cui vado ad ascoltarlo non ho più bisogno dell’intrattenimento. Tu lo sai, quando fai la radio hai bisogno di intrattenere le persone, è un linguaggio universale che deve arrivare a tutti, altrimenti è troppo esclusivo, non puoi esserlo in un media tradizionale. Mentre nei media on demand puoi permetterti il lusso di essere diretto, non devi spiegare niente a nessuno perché chi ti viene a cercare già sa che tipo di contenuto fruirà. Questa per me è la cosa in assoluto più importante del podcast: la possibilità di poter approfondire in verticale con una relazione anche molto intima, senza le regole radiofoniche, senza un editore che ti dice quello che puoi o non puoi fare. È il futuro dello storytelling, non della radio, la radio rimarrà sempre la radio.
Aprendo una piccola parentesi sulla radio, scelte editoriali e quant’altro. Ascoltando il tuo programma, “Musical Box”, si capisce la libertà nelle scelte artistiche ma è comunque dentro un contenitore più ampio, Radio2, che ha dei vertici, delle direttive sui programmi etc. Come convivono le due cose?
C’è una regola non scritta dentro Musical Box per cui Raffaele fa il programma solo se è libero di fare certe scelte. Ma Raffaele è anche, lo sa anche la direzione della radio, in sé un editore e ha la consapevolezza di capire dove si trova, in che contesto, e quello che può e non può fare. Non mi posso permettere dei lussi per cui magari metto una suite di quindici minuti con il rumore di una foglia che vibra e un sax. Magari non lo farei a prescindere ma comunque non me lo posso permettere, è una responsabilità mia perché appunto ho il dovere di parlare ad un pubblico molto ampio in termini numerici. Quindi, se tu parli a tantissima gente in tutto il Paese è fondamentale arrivare a tutti. Poi, è chiaro che nessuno mi potrà mai dire o mi ha mai detto “questo lo puoi dire e questo no”, non lo fanno fare perché capiscono che quello sarebbe il limite. Spesso sono polemico anche nei confronti della musica nei programmi prima di me, figurati (risate, ndr).
Tornando al podcast, per vari motivi il tema della lotta legata alla spiritualità, alla tradizione mi affascina molto. Prima hai parlato di tante cose viste e alcune magari non finite ne “L’urlo di Dakar”, c’è una cosa successa che ti ha colpito ma non è entrata nel podcast?
Diciamo che non è entrata nel podcast ma perché più intima e riguarda il rapporto tra di noi, perché sarebbe un altro podcast. Si tratta di momenti vissuti da persone durante un viaggio on the road in situazioni a volte estreme, altre complicate, di stanchezza, tutta quella parte che non è in questo racconto perché è più distaccato, meno in prima persona. Infatti, il prossimo progetto che farò sarà molto più intimo: con i microfoni sempre accesi a registrare impressioni sul campo durante il percorso e tutto il racconto creato lì sul momento. Qui è mancata ma perché non era prevista l’idea di fare il podcast ed è arrivata dopo quando eravamo già lì. Però, il prossimo sicuramente sarà strutturato così, quella è una parte che mi manca e che vorrò esprimere, quella più umana, emozionale ed emotiva, empatica; meno distaccata, ecco.
Nella Laamb, la lotta tipica del Senegal al centro di questo podcast, c’è la tradizione, ci sono i griot, c’è tutta quanta la parte appunto più ancestrale, però dall’altra parte, essendo uno sport nazionale, c’è l’aspetto commerciale e di profitto. Come convivono i due mondi apparentemente distanti?
Come affronti tu quello che succede nella musica. Ci sono diversi livelli, ci sono quelli che hanno un approccio più spirituale, più profondo e ci sono quelli che ad un certo punto hanno deciso di prendere questa tradizione e renderla show e poi show business. Io sono una persona estremamente laica, ma su tutto, musica, cibo, arte, e non ho assolutamente nessun tipo di fascinazione nei confronti della tradizione. Sì, in termini di studio ma non in termini di evoluzione sociale. Penso che le tradizioni siano un’ancora, una zavorra. Nel momento in cui riesci ad uscire fuori dalla tradizione riesci ad evolverti come società, poi ci sono la consapevolezza, lo studio, il tramandare quello che vuoi, va bene. Quindi sono convinto che ognuno trovi la sua strada. C’è un livello di spettacolarizzazione ma quello dipende semplicemente dalla domanda, “è il mercato, baby!” (risate, ndr). Se c’è molta domanda, è chiaro che l’offerta si organizza. Se ci sono diecimila persone che vogliono vedere un incontro di Laamb, l’offerta sarà quella di costruire uno stadio per metterci diecimila persone. Punto. Seguo quello che succede e tendo a non buttarmi sulla marea pensando di farla abbassare, la marea quando monta, monta, c’è poco da fare.
Nel podcast c’è anche il racconto di un mondo musicale, perché appunto sei arrivato fin lì per quello. Tra le cose che vengono sottolineate c’è la consapevolezza in chi lì lavora nella musica di essere parte del futuro ma che ancora si scontra con l’idea occidentale di un’Africa arretrata sotto tutti i punti di vista. Siamo abituati ad avere noi una idea di loro (sbagliata o giusta che sia), ma loro come vedono noi?
Ci vedono come degli alieni, non c’è altra definizione. Noi li abbiamo sempre in qualche modo analizzati, studiati, colonizzati con il nostro approccio eurocentrico di chi vede tutto quello che è esterno all’Europa come qualcosa di etnico, tutto quello che è fuori da noi è etnico. Loro nei nostri confronti sono chiaramente prevenuti, distaccati ma affascinati dalla nostra capacità di mettere a sistema e valorizzare le eccellenze, quello sì. Loro dicono, voi non siete più bravi di noi a fare assolutamente nulla, non avete qualcosa più di noi tranne questo tipo di approccio ma che è semplicemente il risultato di un periodo di crescita. Da quando il mondo si è aperto, anche grazie alla rete, all’accesso alle informazioni, gli sta cambiando tutto perché se tu sei un ragazzino in un villaggio in Senegal ma hai un telefonino e vedi che c’è uno che con un campionatore da 200 euro, o con un software da zero euro su un computer usato da cinquanta dollari con fruity loops craccato, fa dei beat e diventa famoso in Sudafrica, ti rendi conto di poterlo fare anche tu. È quell’accesso alle informazioni, la democratizzazione della forma artistica, loro poi hanno il talento ed è un attimo. Se ti metti a fare un beat e sei uno che vive da generazioni in un contesto poliritmico, magari, ecco, sei un po’ meglio del ragazzetto calabrese… che sarei io, eh! (risate, ndr)
Tempo fa ho intervistato un tuo amico e collega, Tommaso Cappellato, e gli ho chiesto cosa ne pensasse di questa costola della Blue Note, la Blue Note Africa, nata per andare a scovare direttamente sul posto i nuovi astri nascenti del Jazz. Che operazione ti sembra?
Mi sembra in linea con tutto quello che fa il resto del mercato mondiale, va ad indagare laddove c’è una spinta propulsiva più forte. Noi viviamo in un continente che è morto, ufficialmente, totalmente morto. Dall’Europa non arrivano rivoluzioni, non c’è una prospettiva di crescita. Nel podcast lo dico: se in Senegal l’età media è 18 anni e in Italia è 50, ma come puoi pretendere che ci sia innovazione da un punto di vista artistico e culturale? Se lì c’è fermento, c’è novità, se lì si sta creando un entusiasmo pazzesco, io che sono un’etichetta discografica e mi piace lavorare su quei suoni – tant’è vero che sull’asse Afro-America c’ho costruito un impero – vado lì perché dal Jazz dell’Africa in questo momento stanno uscendo fuori delle perle pazzesche, in Sudafrica soprattutto ma non solo; la vedo una cosa normale, naturale. Poi sì, c’è tutta l’implicazione etica, morale, post-colonialismo, però io tendo sinceramente a non prendere posizioni pubblicamente su questa roba. Mi sembra una cosa troppo delicata, mi sembra un bivio troppo complesso e fatto soprattutto nel 99% dei casi senza nessun tipo di consapevolezza da gente che in Africa non c’è mai stata, quindi…
Parlando ancora di contrasti, futuro e tradizioni che convivono insieme, quasi in simbiosi.
La tradizione continua ad esistere fino al momento in cui non diventa la zavorra. Se c’è una parte della popolazione, della società, ancora legata agli stilemi della tradizione e non si oppone al cambiamento, allora questo può coesistere. Anzi, solitamente diventa pure più affascinante per chi quel cambiamento lo ha attuato e poi ad un certo punto prova a tornare indietro. È un do ut des, uno studio, è un back and forth continuo. Non dico che non debba esistere ma non deve bloccarti, non ti deve portare a fondo, quindi è fondamentale avere la consapevolezza che esiste perché sono le basi. È come dire: “adesso voglio imparare a volare” ma ancora non sai camminare: prima di prendere la rincorsa e librarti in volo, impara a camminare. Questa società, quella società, tutte le società che imparano a camminare ad un certo punto provano a spiccare il volo. Lì in quel momento sta succedendo proprio questo, ora sono nella fase di rincorsa ma se in questa fase c’è la tradizione che ti si appoggia alle caviglie e ti dice: “No, fermo! Dove vai? Devi rimanere qui con me”, è un problema. Questo però lì non succede perché la maggior parte della popolazione ha 18 anni, capito?! Mentre qui la maggior parte della popolazione ha Sanremo come riferimento culturale, quindi che vuoi cambiare? Non cambi niente, è una velocità diversa che nessuno di noi può comprendere. Quello che sta succedendo in Africa e che succederà tra vent’anni che arriverà dall’Africa è un’ondata irrefrenabile, per fortuna. Il mio disco, Black Noise 2084, parlava proprio di questo e cioè che in un ipotetico futuro prossimo il rumore di fondo della nostra società sarà nero, non c’è niente da fare, che vogliate o no, capito?!
Per chiudere: questo disco di Khalab esce o no? Visto che hai detto: quasi quasi non lo faccio uscire.
No, questo non esce, non penso uscirà mai. Alla fine il materiale è più o meno quello che a pezzetti si sente nel podcast, e sinceramente comincio ad intravedere nei podcast anche una possibilità per l’editoria discografica. Mi piace l’idea di dire che alcuni progetti posso non farli mai uscire come disco ma li abbino ad uno storytelling in cui racconto il concetto, come è stato costruito, realizzato e lo faccio anche ascoltare. Quindi, mi piace mantenerlo così, anche solo per tenerlo come case history, come dire, nella storia della musica: “Ma sai che ‘sto cretino nel 2022 è andato lì per il disco e invece di farlo uscire l’ha lasciato lì nel podcast a mozzichi e bocconi?!”. Anche perché non mi va neanche di riciclare la creatività, è venuto e uscito lì dentro e fare il “maiale” adesso non mi va: il disco, poi i video e poi ci faccio i live. Mi piace che sia un progetto stand alone, però io intanto chiaramente ho finito il prossimo album di Khalab vero e proprio, quello è finito e sì, quello uscirà. Ma non c’entra niente con quello che ho registrato in Senegal.