RAFAEL ANTON IRISARRI
Rafael Anton Irisarri, americano, è compositore e produttore (ha aperto i suoi Black Knoll Studio a New York, e il trasferimento da Seattle a New York è diventato anche una parte dolorosa della sua biografia). Pubblica a suo nome e come The Sight Below, e lo troviamo assieme a Thomas Meluch (cioè Benoit Pioulard) nel progetto Orcas. Questo significa che è presente complessivamente sui cataloghi di Room40, Morr Music, Miasmah, Immune, Ghostly International e anche Touch (in veste di remixer di Biosphere). È curatore del Substrata Festival, che negli anni ha visto la partecipazione di Ambarchi, Biosphere, Deupree, Frahm, Grouper, Hecker (Tim)… Tutto questo name dropping, una volta tanto, secondo me – voglio illudermi – dà l’idea di chi sia questo signore e di come suoni. Forse non rende però quanto sia pazzesco l’ultimo A Fragile Geography, che è uno dei motivi per cui ho chiesto di poterlo intervistare, ma non l’unico. Il mio, come leggerete, è un innamoramento serio.
Sulla pagina Wikipedia di The Sight Below c’è una tua foto mentre suoni a Modena, durante il Node Festival del 2009. Io c’ero. Ricordo ovviamente che iniziavi prima di Christian Fennesz e che la serata partiva con Giuseppe Ielasi. Stavamo in uno stanzone bellissimo dentro un palazzo storico (non ricordo assolutamente quale). Niente sedie, solo cuscini, mi pare. Mi ci sono volute quattro ore di macchina per vedermi il festival, ma conservo ancora la memoria delle ultime due performance, forse anche per merito delle tue visuals e di quelle di Fennesz (arancioni e gialle, credo in relazione al suo disco Endless Summer). Non ti conoscevo e subito ho pensato ai Seefeel, una delle mie band preferite. Ho cominciato a seguirti da allora. Tu cosa ricordi? È stata una sera importante per te? Per me decisamente sì.
Rafael Anton Irisarri: Sì! È stato fantastico! Contento di sapere che ti sei divertito, specie dopo aver guidato così tanto. Serata meravigliosa, ricordo. Per me lo è stata per una serie di motivi: primo, c’era un sound system molto buono in quel posto e i tanti schermi per i video erano una gran cosa; secondo, Modena è una città favolosa, grande cibo e persone ospitali. È finita che sono rimasto alcuni giorni e mi sono provocato un’overdose di aceto balsamico. E poi era la prima volta che mi trovavo sullo stesso cartellone con Christian e lui si è congratulato dopo la mia performance. Abbiamo suonato ancora assieme l’anno successivo in Italia ed è finita con me sul palco con lui che suonava la chitarra (facevo pure le visuals).
Devo iniziare l’intervista con “Empire Systems”. Quando ascolto album ambient o noise, ricordo il gusto, il colore, le sensazioni in generale. Questa volta ricordo la traccia e il titolo, e mi smuove ogni volta che la sento. Perché? Sembra che tutti considerino quella traccia l’apice di A Fragile Geography.
La composizione di questa traccia è ingannevolmente semplice, come accade nella maggior parte dei grandi pezzi minimalisti. La linea melodica si ripete di continuo, ma allo stesso tempo si evolve nel mentre avanza attraverso la canzone, con tanti livelli che crescono. Probabilmente è questo che la rende memorabile. Non ne sono interamente sicuro, è difficile a volta analizzare la mia stessa musica ed è un brano emozionante per me. L’ho scritto qualche anno fa, e dopo che ho perso tutto l’anno scorso, l’ho ricostruito sulla base del ricordo di un “live score” che avevo realizzato in un museo di Mosca proprio dopo essermi trasferito a New York. La versione finale, se ci penso, è influenzata da New York: la bellezza degli scenari di Upstate New York e la durezza degli ambienti cittadini collidono in una traccia che può essere considerata come appartenente alla scuola minimalista di questa città (almeno dal punto di vista compositivo). Curiosamente, direi, vivo a circa quaranta minuti dal più grande museo minimalista americano, il Dia:Beacon. È pieno di opere monumentali di artisti come Richard Serra e Sol Lewitt. Ci può essere stata una sorta di influenza sul mio inconscio, se ci rifletto, dato che visito questo posto molto di frequente.
The North Bend, The Unintentional Sea, A Fragile Geography. Tre album collegati a un paesaggio, a uno spazio, ma questa volta – per usare le parole di James Graham Ballard – stiamo esplorando anche “lo spazio interiore”. Perché? Suppongo che la cosa sia legata al fatto che ti sei trasferito a New York e che qualcuno ti ha derubato del tuo equipaggiamento.
Sì, non era solo l’equipaggiamento, ma piuttosto il lavoro di tutta la mia vita assieme a degli oggetti che documentavano la mia presenza su questo pianeta. Un’intera esistenza non costituita solo da arte, libri e musica, ma anche simboli di determinati momenti della mia vita (foto con parenti scomparsi da tempo, regali di compleanno, ricordi di viaggio, quelle cose lì). Non sono un materialista, non possiedo cose sfarzose come tv con lo schermo gigante. Il mio soggiorno non sembrava nemmeno uscito da una pagina del catalogo Ikea. Tutto ciò che avevo svolgeva una funzione.
Per quanto riguarda la tua domanda: negli ultimi anni mi sono interessato al modo in cui noi ci relazioniamo al paesaggio e di come questo influenzi le nostre azioni, non solo come artisti e musicisti (nel mio caso), ma anche in generale come umani che condividono lo stesso spazio su questo pianeta. Le cose che ci lasciamo dietro, le ragioni per cui ce le lasciamo dietro e come questo abbia un impatto sugli altri. Con questo nuovo album sto documentando un periodo turbolento, parlando da un punto di vista interiore, che però rispecchia in questo momento anche l’esteriore. Stiamo vivendo tempi molto caotici. Il mondo non è mai stato così in difficoltà almeno dagli anni Trenta, quindi trovo che a volte tutto quello che c’è da fare sia urlare più forte che si può e lasciar uscire tutto in qualche modo. Questo, ovviamente, si vede anche in alcuni dei pezzi più intensi dell’album.
A Fragile Geography viene presentato come “an exercise in the art of maximal minimalism”. L’ep che lo accompagna, Unsaid, è presentato come “different takes on the potency of maximal minimalism”. Chi ha inventato la definizione “maximal minimalism”? È sia interessante sia non troppo seriosa, ma anche veritiera se penso a certi album ambient più recenti con più sangue a scorrere nelle loro vene…
È del grande Lawrence English, che è molto più brillante di me. È uscito fuori con questo termine per descrivere i miei lavori. Mi piace come funziona questo dualismo: concetti che possono essere diametralmente opposti ma allo stesso tempo interlacciati. Uno può decisamente avere impatto sull’altro, e tu devi davvero interiorizzare il significato di uno per comprendere l’altro.
Per le parti visive di quest’album hai collaborato con Sean Curtis Patrick: foto danneggiate, video danneggiati (“Hiatus”). In un mondo dove le immagini sono hi-res e iperreali (e troppo reale diviene troppo falso), tu opti per l’indefinito e il vago. Perché?
Mi piace l’idea che occorra farsi largo in mezzo al “rumore” per poi trovare i dettagli di un’immagine. Simula il modo con cui dobbiamo focalizzarci per apprezzare ciò che ci circonda, specie in quest’epoca nella quale siamo costantemente bombardati d’informazioni. L’altro giorno sono andato al Metropolitan Art Museum di New York. Sono rimasto esterrefatto dal quantitativo di gente che continuava a fotografare le opere d’arte osservandole attraverso smartphone o tablet. Dai, seriamente, sei a un museo, puoi provare l’esperienza di un Rothko, che ha tutta una serie di sottotesti dentro di sé, e anziché concentrarti sulla sua bellezza, stai sprecando quest’occasione per vederlo nuovamente attraverso uno schermo? Che senso ha? Stai a casa e guardalo su internet. Di nuovo, dunque, ti perdi i dettagli che puoi vedere quando la luce cambia mentre ti muovi davanti al dipinto. In parole semplici: l’esperienza immersiva. Perché rovinarla, rovinandola anche agli altri?
Secondo me, potresti essere ovunque. Su Mute come Ben Frost o su Kranky come Tim Hecker o con la 12k e così via… Tu sei su Room40 (è il tuo terzo album qui) a Lawrence English si è occupato del mastering di questo tuo lavoro. Perché? Non interpretare male, mi piace quello che fa la Room40. Voglio solo sapere perché te la sei scelta come casa.
Non è tipo che io ho scelto l’etichetta, ma più che Lawrence mi ha invitato a essere parte della sua famiglia estesa e io che sono felice di lavorare con lui. È così che lui si muove, una piccola operazione firmata da famiglia e amici. Non che non sia così anche con alcune altre etichette che hai nominato, che agiscono in modi molto simili. Conosco tutti quei ragazzi e ho lavorato con molti di loro (ho fatto dei mastering per Kranky, ad esempio). E poi sono praticamente vicino di casa con Taylor (Deupree, ndr) della 12k. Usciamo spesso, dato che viviamo a un quarto d’ora l’uno dall’altro in un’area rurale solitamente isolata. Non vedo competizione tra artisti ed etichette. C’è spazio per le proposte di tutti e noi formiamo parte di un ecosistema più ampio, più grande delle singole parti che lo compongono.
Hai lavorato con Simon Scott (Slowdive). Sei ancora in contatto con lui? Hai sentito Insomni, il suo album uscito quest’anno? Non ti sembra come un fratello maggiore di tanti musicisti ambient di adesso?
Ci parliamo di continuo. Voglio bene a Simon, è una persona incredibilmente gentile. Sono contento di averlo potuto conoscere meglio, non solo a un livello superficiale come talvolta capita nelle scene musicali. I suoi lavori recenti mi sono piaciuti molto e sono sempre curioso di sapere che farà, anche con la band. Come forse sai, sono uno dei più grandi fan degli Slowdive su questo pianeta!
Ho scoperto che hai lavorato anche con Scott Morgan (Loscil). Sia tu, sia lui avete dipinto il Nord Ovest americano (e il Pacifico) con la vostra musica. Ne avete mai discusso? Faresti un album insieme a lui?
Sì, ho lavorato tante volte con Scott. È una gran persona e siamo abbastanza buoni amici. Abbiamo anche fatto un piccolo tour nel “Pacific Northwest”. Di solito non parliamo troppo di musica, stiamo bene insieme e ci piace discutere di India Pale Ale e altri argomenti. Ci sono tante cose nella vita oltre a musica e arte! Detto questo, sarebbe grandioso se il tempo ce lo concedesse. È uno dei miei preferiti.
Questa è la domanda del fan. In tutti questi anni ho trovato tanti musicisti differenti che nominavano Arvo Pärt nel momento in cui parlavano dei loro compositori preferiti e delle loro influenze. È divertente che anche gli Emperor lo nominavano nelle interviste e che l’etichetta The Ajna Offensive (che di solito fa i Watain…) ha ristampato Passio. Non sono un esperto, né uno specialista, ma ho sentito “Für Alina” mille volte, semplicemente perché un sacco di artisti che stimo me lo avevano suggerito. In occasione dell’ottantesimo compleanno di questo compositore, ti va di raccontarmi perché hai proposto la tua versione di “Für Alina” su Reverie?
Ho sentito tantissimo la sua musica. È una grossa influenza sul mio modo di vedere quest’arte. I suoi “tintinnabuli” hanno avuto un profondo impatto su di me. Un po’ più di cinque anni fa, stavo lavorando col mio amico Kelly Wyse su alcuni pezzi per una live performance per un museo di Seattle. Avevamo deciso che lui avrebbe suonato il piano e io avrei fatto un po’ di processing, e aggiunto alcuni miei “elementi” a composizioni prevalentemente classiche. Beh, abbiamo fatto alcuni pezzi di Arvo. Per esempio abbiamo realizzato una versione di “Spiegel im Spiegel”, che abbiamo arrangiato per piano e per chitarra suonata con l’archetto. Stessa cosa con “Fratres”. Di tutti i brani che abbiamo registrato, quello che mi piaceva di più era Für Alina, è una musica così ossessionante, e tra l’altro mi ero preso qualche libertà in sede live, aggiungendo dei miei arrangiamenti che non c’erano nell’originale. Pensavo fosse una specie di omaggio. E insomma abbiamo finito per mettere quest’ultima versione su Reverie. Che peccato aver perso le altre due, le avrei volute pubblicare.
Grazie per aver risposto alle mie domande. Ho sempre sperato di avere la possibilità di parlare con te prima o poi. Quando ci vediamo in Italia?
Spero a febbraio. Seguitemi su Twitter o sulla mia pagina Facebook, dato che tendo a pubblicare lì le news sui miei prossimi show. Comunque ho pure un sito tradizionale, irisarri.org, e tu ci trovi comunque tutto. Grazie ancora per queste domande ben meditate!