RABIH BEAINI
Rabih Beaini, libanese vissuto per tanti anni in Italia e ora cittadino berlinese, è dj, producer, label manager. Molti lo conoscono col nome di Morphosis: una “voce solitaria” nell’ambiente della musica elettronica, secondo la sua biografia. Probabilmente si vuole alludere all’estremo eclettismo delle sue selezioni, che traggono spunto anche dal jazz e dalle avanguardie, come si può scoprire facilmente grazie alle molte testimonianze del suo lavoro reperibili su internet. Nel 2011 tutti sono impazziti per il suo What Have We Learned, un album che – intendiamoci – in qualsiasi negozio (se ne esistono ancora) trovereste sugli scaffali dedicati alla techno e all’house, ma che già al primo giro sullo stereo rivela sfaccettature di ogni tipo, che hanno indotto tanti a chiamare in causa il jazz, Sun Ra, l’elettronica “d’ascolto” e altro ancora. Setacciavo la Rete alla ricerca della soluzione al suo enigma e mi ha colpito il flusso di notizie su di lui presente sul sito dell’agenzia che gli organizza i live: nel giro di poche righe veniamo informati che ha suonato in uno degli eventi Boiler Room e poco dopo si è confrontato in un programma radio con Pauline Oliveros… Non stupisce, dunque, che un giorno si sia tolto la maschera e abbia pubblicato Albidaya (2013), un album molto “esplorativo” in cui riprende a collaborare con due musicisti coi quali aveva già formato poco tempo prima un progetto chiamato Upperground Orchestra. Con uno di questi, il sassofonista Piero Bittolo Bon, lo potremo vedere al Dobialab di Staranzano giovedì 19 maggio (mio aggiornamento successivo del 17 maggio: causa problemi personali Rabih Beaini non potrà partecipare a Dobiarteventi, ndr), nel contesto di una manifestazione ricca e internazionale come Dobiarteventi, ed è per questo che, avendo l’opportunità di contattarlo, mi sono soffermato sul disco che per la prima volta porta il suo vero nome. Albidaya non ha nulla a che fare col dancefloor ed è il tentativo di Rabih di mettere insieme il suono delle sue origini orientali e quello del suo vissuto musicale europeo. Il puzzle non è per nulla semplice (né finito, forse) e Beaini, armato di sintetizzatori, organo, chitarra (e appunto supportato da Bittolo Bon e Tommaso Cappellato alla batteria) qui è così libero da vincoli di genere che, anche quando usa la sua solita strumentazione o lavora sulle parti ritmiche, dà forma a qualcosa di trasfigurato in un inedito ibrido tra suggestioni “folk”, elettronica/ambient e jazz/impro.
Approfitto di una felice coincidenza: l’artista è appena apparso su questa compilation benefica, messa in piedi da gente che ben conosciamo. Spendete i vostri soldi.
Hai una lunga storia alle spalle e hai fatto molte cose, ma qui vorrei parlare del tuo concerto a Dobiarteventi, senza rubarti troppo tempo. Suonerai con Piero Bittolo Bon. Lui è presente in “Albidaya”, il primo disco che hai pubblicato a nome Rabih Beaini e non come Morphosis. Con lui hai suonato anche nella Upperground Orchestra. Come vi siete conosciuti e perché avete deciso di lavorare insieme?
Rabih Beaini: Vivevo ancora a Venezia e Piero Bittolo Bon era una delle figure principali tra i musicisti residenti in città, sicuramente un fuoriclasse per quanto riguarda free jazz e improv. Non ricordo l’occasione precisa in cui abbiamo condiviso il palco per la prima volta, ma eravamo intorno al 2010 quando gli ho chiesto di diventare musicista stabile della Upperground Orchestra, e da quell’anno abbiamo registrato varie cose assieme, inclusa parte del mio album Albidaya.
Piero è un sassofonista, uno jazzista. Tu un dj e producer che ascolta tantissimi generi. In una tua intervista hai detto che per te tutto è jazz. Quale è la cosa più importante che ti ha insegnato il jazz?
Tutto è Jazz nel senso dell’approccio di un musicista e produttore verso la sua stessa musica. Dal jazz ho imparato negli anni a lavorare con altri musicisti in diversi contesti (anche come sviluppo di idee e progetti), il dialogo sul palco, la composizione istantanea. Tutto è Jazz anche nella musica elettronica, nel senso delle radici comuni, della storia che lega quasi tutto, dalle produzioni in casa a sessioni con un’orchestra. Il genere musicale non importa più in sé, è l’approccio stesso che determina quanto interessa a me personalmente tutto questo processo e il suo risultato finale. Il Jazz mi ha insegnato il linguaggio.
Cosa avevi in mente quando registravi “Albidaya”? Avevi un piano o era un esperimento e non sapevi cosa sarebbe successo? Di solito noi ascoltiamo musicisti occidentali che prendono idee e suoni (anche coi samples) dalle tradizioni africane e asiatiche. Tu però sei libanese e vivi e suoni da tanto in Europa, quindi non hai dovuto prendere niente a nessuno, tutti e due i mondi erano già “tuoi”…
Non c’era un Piano diabolico dietro ad Albidaya, ma un’intenzione basata puramente sulla richiesta di Sharif Sehnaoui e Raed Yassin di preparare un album da mettere sulla loro label Annihaya. Ero molto entusiasta all’idea di riuscire finalmente, dopo molti anni, a pubblicare per un’etichetta libanese, cosa che non mi sarei mai aspettato prima di conoscere loro. Dopo What Have We Learned, che fu un album inteso come “marker” per il mio percorso musicale ma anche di residenza, questo nuovo mi cresceva dentro come una cosa più personale, più da inizio di un percorso, un reset quasi totale. L’idea poi era di tornare alle radici del suono non più dalla parte occidentale e africana, ma quella della mia terra, non so se nel prodotto finale io sia riuscito ad applicare questa cosa in pieno, ma non mi sono nemmeno forzato troppo, perché era solo un’intenzione, non un piano.
In Albidaya, che significa inizio (è un nuovo inizio?) non ci sono quasi beats. Come ti sei trovato senza una delle tue armi (una di quelle che usa il tuo alter ego Morphosis)?
Ti riferisci precisamente alla TR-808? Sì, è sicuramente uno dei miei principali strumenti e rimane tale, una drum machine che – pur avendo un range di suono molto limitato per la tecnologia di oggi – ha una versatilità per quanto riguarda il modo con cui suono normalmente, che la rende presente in quasi tutte le mie registrazioni. Ed è anche in Albidaya, ma “nascosta” come triggering source per altri strumenti.
In Albidaya non ci sono beats, ma c’è spesso il drone o qualcosa che gioca un ruolo simile a quello del drone. Quando penso a questo modo di suonare, la prima cosa che mi viene in mente, in automatico, è Lustmord, perché con lui ho cominciato a capire certe cose quand’ero più piccolo. Chi ti ha fatto scoprire la drone music e l’ambient?
… Drone, non sono proprio un esperto conoscitore del genere. Io esploro il suono come meglio mi riesce, una ricerca attraverso la manipolazione libera ma cosciente. Le cose “droney” nell’album sono parte del percorso di scultura dei suoni, non è intenzionale, ma processuale. Per esempio le bacchette sulle corde oppure i filtri e le distorsioni sono applicati in un contesto groovy più che di stallo musicale. Ecco dove c’è il beat in Albidaya, nella distorsione dello stesso beat che resterà sempre parte cruciale del mio metodo.
In “Albidaya” compaiono i nomi di Donato Dozzy (hai registrato delle parti da lui a Roma) e Neel (mastering). Noi di The New Noise abbiamo recensito varie volte Dozzy e io ho intervistato Neel. Non abbiamo mai recensito Voices From The Lake però! Come vi siete conosciuti e cosa apprezzi del loro lavoro?
Ho conosciuto Donato personalmente nel 2010, credo, con Claudio Fabrianesi sono venuti a Venezia per una serata all’Elefante Rosso, un club che gestivo all’epoca in zona Mestre. Da lì nacque una profonda amicizia. Con Neel, invece, ci siamo conosciuti per la prima volta credo nel 2009 a Rotterdam, dove viveva lui: è da quando ha iniziato la carriera nel mastering che lavoriamo assieme per tutto il catalogo Morphine. Oltre all’amicizia ammiro molto il loro metodo di lavorare e le loro produzioni, anche se sono abbastanza diverse da quello che faccio.
Infine, non posso fare finta che tu non sia un dj famoso per la sua grande personalità, attento a mille suoni differenti. Cosa ti è piaciuto di più di questo 2016 musicale?
Alla fine del 2015 un viaggio in Indonesia mi ha permesso di vedere e sentire molte cose incredibili, da concerti a festival e rituali locali, poi fine gennaio il CTM offriva delle performance impressionanti come il solo di Takuya Taniguchi, Pauline Oliveros, Abdel Karim Shaar, Senyawa e Haino, e molte altre esibizioni intensissime. Poi altre cose tipo la performance di Daniele De Santis al Irtijal Festival in Libano, durante un’edizione veramente speciale di questo evento; il solo di Sophia Jernberg al Borderline Festival ad Athene, e molto altro.