RABID DOGS, Black Cowslip
Era da un po’ che si aspettavano notizie dai Rabid Dogs, formazione che abbiamo già incontrato e di cui abbiamo saputo apprezzare la miscela di grind, rock’n’roll e sfumature stoner i cui testi e immaginario guardano al cinema poliziottesco italiano dei ‘70. Questo nuovo album introduce nella ricetta un forte retrogusto d-beat e death di scuola scandinava che ne aumenta l’impatto e rende il tutto ancora più incisivo; rimane vivido il sentore stoner/sludge, particolare che non stempera l’effetto finale ma riconferma l’intuizione felice della band in prospettiva di donare personalità e originalità al suo linguaggio, aspetto che trova resa ottimale in esibizioni dal vivo dal piglio che difficilmente lascia indifferenti. Quello che cambia, oggi, è che i Rabid Dogs appaiono ancor più consapevoli delle proprie potenzialità e saldi quanto a coesione interna dei vari ingredienti, grazie all’esperienza accumulata nei molti anni di attività e ad una minore importanza data dell’elemento grind, che appare ora come una delle varie componenti e non più momento centrale. Quale caratteristica già ben presente nei titoli dei brani, ritroviamo i campioni di dialoghi di film, altro fattore irrinunciabile per mantenere solidi i legami con un passato che ha visto i tre dedicare un disco a “La Piovra”. Tutto è giocato alla luce del sole e sparato in faccia all’ascoltatore, con una naturalezza che toglie di torno ogni possibile sospetto di pastiche artefatto o studiato a tavolino, prevalendo l’impressione che i tre siano i primi a divertirsi con la propria musica e a trarne giovamento come valvola di sfogo in questi tempi strani (e non parlo solo della pandemia, ovviamente). Una conferma che dimostra, ancora una volta, come il coraggio di osare qualche accoppiata di gusti particolari venga infine premiato, soprattutto se frutto di una vera intuizione e non di un semplice provare a fare gli strani a tutti i costi. Promossi.