QUEEN ELEPHANTINE, Scarab
Ormai siamo abituati, ma fa specie vedere un indiano formare una band a Hong Kong, andare a vivere – cambiando la line-up, ovviamente – in America e ottenere che il suo disco venga stampato da un’etichetta israeliana (l’ottima Heart & Crossbone, per la precisione) in cd e da una greca in vinile (Cosmic Eye).
A tutt’oggi la composizione dei Queen Elephantine si direbbe in continuo mutamento attorno al fondatore Indrayudh Shome, anche se Brett Zweiman sembra resistere dentro al progetto. Tra ricorso ad aiuti vari per suonare strumentazione etnica, veri e propri cambi di assetto (qui ci sono due batteristi) e spunti improvvisativi, pare opportuno parlare di “formazione aperta”, guidata da un direttore d’orchestra che, col rischio di essere accostato agli Om, porta elementi che appartengono alla tradizione indiana dentro uno stile doom-eggiante e mantrico. In realtà, però, i Queen Elephantine sembrano molto più incatenati a terra e sporchi rispetto a Cisneros e compagnia. Non si può dire che si tratti di qualcosa privo di un afflato mistico, ma questo sound, unito al lamento di Shome e a testi molto brevi tutti da interpretare, più che d’incenso sa di fumo scadente che fa male a testa e stomaco… non è un insulto, è un complimento. Ve lo passiamo noi qui sotto: date un tiro, non si sa mai.