PUCE MARY, The Drought
Dopo un buon numero di uscite, tutte per la danese Posh Isolation, Frederikke Hoffemeier, questo il vero nome di Puce Mary, pubblica il suo primo album per Pan, etichetta berlinese che quest’anno festeggia il suo decennale e su cui, voglio sperare, non mi debba produrre in spiegazioni. Non nuovo a incursioni in zone noise (sia pure ibridato con i suoni della modernità, basti pensare ai due titoli a firma Jar Moff), Bill Kouligas accoglie a bordo la musicista svedese che alla grammatica del rumore da sempre abbina una notevole cura del suono: sappiamo del resto della sua assidua frequentazione dell’EMS, il prestigioso istituto statale di Stoccolma dedicato alla sperimentazione elettroacustica.
The Drought stenta in avvio, le prime tracce scorrono via senza lasciare il segno, appaiono sbiadite quando non farraginose, quasi come se il passaggio alla nuova etichetta avesse richiesto uno sforzo concettuale che di certo non giova all’economia del disco: una narrazione incerta o poco lineare, sicuramente meno immediata rispetto a quanto aveva fino ad ora fatto ascoltare Puce Mary. La situazione si sblocca a metà percorso, quando il noise della Hoffemeier, libero da faticosi orpelli e preoccupazioni di sorta, si fa più riconoscibile. Seppur sommersa dalla coltre di rumore è, come dicevamo, facilmente rintracciabile una dedizione estrema alla forma del suono; la voce fa la sua parte tramite lo spoken word (i riferimenti sono a Baudelaire e Jean Genet), accompagnata da ritmiche appena abbozzate, glitch, da sciami elettrostatici e stridori che si ingrossano fino a fare le veci di una sezione d’archi. In un paio di tracce fa la sua comparsa il suono dell’organo, dove imponente (“To Possess Is To Be In Control”), dove sommesso (“Red Desert”, ispirata al cinema di Michelangelo Antonioni).
Puce Mary prova ad ampliare il proprio ventaglio espressivo ma non sempre l’effetto è quello sperato: il disco diventa veramente gustoso solo quando gioca su terreni già battuti.