Poplar Festival, 12-15/9/2024
Trento, Doss.
Il Doss è un panettone granitico dal volto burbero che osserva sornione la città di Trento dall’alto dei suoi 307 metri sul livello del mare. Otto ettari di foresta come una presenza a cui è impossibile sfuggire, placida e statuaria sopra il fiume Adige. Sulla sommità di questo guardiano silenzioso prende vita dal 2017 il Poplar Festival, kermesse culturale e musicale che accende Trento attorno alla metà di settembre. Un evento che negli ultimi anni si è affermato, riuscendo a costruirsi un seguito nazionale e – sembra una bestemmia ma non lo è – internazionale. Infatti da quest’anno i nomi stranieri sul poster del Poplar sono aumentati a dismisura, rinvigorendo la caratura di un appuntamento che fa sempre più parlare di sé. Dai preamboli il 2024 sembrava l’anno della consacrazione, con quattro serate costruite quasi a compartimenti stagni, con quattro macro-stili a definire gli appuntamenti: rap e trap, elettronica e alternative, indie italiano, rock e post-punk. Ad averne di lineup così, pensate con la testa e non con i piedi.
Sono innumerevoli gli scalini che separano la piazza di Piedicastello, dove avvengono gli incontri e i panel del sempre interessante evento accessorio Poplar Cult, dalla radura del Doss, dove tra le fronde della foresta e il mausoleo di Cesare Battisti (sigh) troviamo incastonati i due palchi del Poplar. Quest’anno si è fatto il salto della Fede raddoppiando le venue, due strutture speculari che si osservano in un continuo rimando di set infuocati. L’impatto con l’area del festival è quello di un accogliente riparo per giovani esploratori sonori, con bar e cibarie a disposizione. Tutto il corredo umano e organizzativo del Poplar è curato nei minimi dettagli, e si ha subito la netta sensazione di trovarsi in uno di quegli eventi in cui il cuore pulsante è celato nel petto dei volontari, sempre sorridenti e alla mano. Ok le vibes e la presa bene, ma la ciccia?
Ho partecipato alla seconda e alla quarta notte di danze, quindi prima di tutto ricapitoliamo quello che mi sono perso. Un primo giorno con il nome di punta riservato a Yung Lean, istituzione dell’alternative R&B moderno, che nonostante una serata piovosa e glaciale ha radunato sul Doss una buona dose di regaz carichi a pallettoni. Terzo giorno invece riservato alla musica del Belpaese, con Fulminacci e Marco Castello (autore di uno dei dischi italiani più interessanti di quest’anno) a infiocchettare il primo sold out del Poplar: tanti ragazzini urlanti, tanto entusiasmo, un successone. Tra queste due nottate viene inserita la mia prima presenza, per un Day 2 fortemente focalizzato sull’elettronica e tutto quello che le ruota attorno. Termino la mia ascesa con fiatone alla Messner e mi ritrovo a sentirmi il set di Anna And Vulkan, docile ragazza partenopea che flirta con il plagio più volte (qualcuno ha detto Nu Genea?) allietandomi durante la mia prima birretta. Cambio palco per gli Zimmer 90, terzetto teutonico divenuto famoso per una di quelle canzonette che trovi nei trend di Tik Tok, che portano avanti il loro indie pop mellifluo senza entusiasmare più di tanto (lo spritz Campari ha aiutato). Il primo nome grosso arriva con gli Yin Yin, navigatissimi esperti dell’appropriazione culturale (si scherza) in salsa psychedelic disco che ci fanno muovere le natiche con piacere. Ogni volta che li vedo sono sempre estasiato dalla quantità di droghe leggere che devono aver assunto prima del loro set, le facce non mentono. A seguire mi gusto una delle artiste che attendevo maggiormente, quella Sofia Kourtesis che mi ha ammaliato con il debutto Madres del 2023. La polpa sonora c’è ed è godibile, ma la sua voce dal vivo non rende come dovrebbe, peccato. Altro nome nella mia lista del cuore era quello dei Mount Kimbie, duo ormai diventato stabilmente quartetto che ha fatto la storia dell’alternative made in UK. Le premesse vengono mantenute e addirittura superate, con un concerto totalizzante che mette in risalto tutte le doti del gruppo, una vera goduria. Satollo di questo ben di Dio mi giro verso i Fuera, e mai scelta fu più sbagliata. Indifendibili, incomprensibili, fuori contesto: il terzetto italiano sciorina un hyperpop trap a due voci che urla vendetta verso le mie orecchie, i miei occhi e la pubblica decenza. Anche qui tanti ragazzi e ragazze al settimo cielo, sarà che io sto oramai galoppando verso l’età della ragione. Il main event è riservato ad Apparat, nome che non ha bisogno di alcuna presentazione, che sciorina un set intenso quasi da clubbing berlinese, con orpelli e drittoni che mi fanno godere e muovere con gusto. Forse troppo cervellotico per il classico pubblico trasversale da festival, ma io non mi lamento e porto a casa un sorriso a 32 denti.
Un sonno ristoratore non mi aiuta a gestire in modo migliore la salita di domenica, ma il luppolo che riempie il mio bicchiere mi fa dimenticare le fatiche. Nota di merito per i prezzi calmierati del food&beverage, soprattutto senza l’utilizzo dei token, vera metastasi dei festival moderni. Mi guardo attorno e noto un cambio di fauna tra il pubblico, con molti tatuaggi in più sulle braccia e altrettante magliette hardcore e metal a denotare che oggi si vive diversamente. L’headliner sono i Viagra Boys, ma ci arriveremo. Prima scopro con piacere Lamante, ruggente ragazza a metà tra Carmen Consoli e Levante, che tira più di una convincente zampata. Sul secondo palco poi si scatena la verve punk di Visconti, e mi lancio nel primo moshpit della giornata uscendone quasi integro. Il ragazzo e la sua band sono sempre una certezza, e il prossimo disco in uscita sarà sicuramente una mina. Il primo neo della nottata arriva con le Los Bitchos, polpettone fatto di cumbia-salsa-surf rock che non ha assolutamente nulla di interessante. Troppo lenti per essere ballabili, troppo ripetitivi per essere apprezzabili. Ci si ripiglia con i Fat Dog, usciti da poco con il loro debutto che mi ha positivamente colpito e che dal vivo ha una resa mastodontica. Quaranta minuti di synth punk taglientissimo che diventa un rave incontrollato, con la folla (e me medesimo) che si lancia in un parapiglia insanguinato senza un attimo per respirare. Tiro il fiato con l’act degli I Hate My Village, supergruppo italianissimo con componenti di Verdena, Bud Spencer Blues Explosion e Calibro 35. Ingredienti che danno vita a uno psychedelic rock denso con performance da dieci e lode, approvati. Prima degli headliner c’è tempo per le Lambrini Girls, trio power punk inglese che mettono letteralmente a ferro e fuoco il second stage con una presenza scenica mastodontica. Proprio come la chiusura, data in mano alla band post-punk più influente degli ultimi anni. Gli svedesi Viagra Boys ci consegnano uno spettacolo da ricordare, statuari e gargantueschi nella loro fluida epopea dance punk che non risparmia niente e nessuno. Il bulbo etilico del frontman Sebastian Murphy, estremamente teatrale nel suo dominio incontrastato del palco, osserva con piacere il putiferio che si solleva dalla platea, che risponde con ardore alla setlist perfetta dei ragazzi venuti dal profondo nord.
Una chiusura gigante per quattro giorni di puro divertimento, che passano l’esame di maturità alla cattedra dei grandi festival estivi. In un panorama nostrano in cui realtà come queste nascono e muoiono con velocità disarmante, veder proliferare creature come il Poplar è una boccata d’aria fresca. È stata alzata l’asticella, e non vedo l’ora di vedere cosa riserva il futuro. La valle di Trento è diventata per quattro giorni un nucleo di socialità, innovazione e sperimentazione, sapendo osare e venendo ripagata da un pubblico arrivato da tutta Italia e dall’estero per godere di questo piccolo miracolo tra i monti. Perché quando si fanno le cose per bene si vede e si sente. Si respira qualcosa di diverso, e si torna a casa sapendo che le cose per cui vale la pena fare i salti mortali esistono e sono da difendere. Ci vediamo il prossimo anno, Doss.