PHILIPPE HALLAIS, An American Hero

Non c’era ancora un disco a nome Philippe Hallais, perché fino a oggi aveva pubblicato usando pseudonimi, facendosi conoscere soprattutto come Low Jack e occupandosi generalmente di produrre musica per ballare, pur se con qualche sfumatura “eterodossa”.

Philippe, originario dell’Honduras, adottato da una coppia europea e residente oggi a Parigi, è riuscito anche ad andarsene in tour e pare (leggete quest’intervista, vi sarà molto utile per decodificare il disco) che durante i viaggi, annoiandosi a morte, guardasse brutta tv su internet, leggesse tabloid scadenti a caso e poi componesse sul laptop prima degli imbarchi e nelle stanze d’albergo. Una sua fissa erano i documentari sulle vite degli sportivi americani, di cui io – come credo molti altri dalle mie parti – non so nulla: lui li ritiene molto standardizzati e forzosi, tanto che è possibile addirittura individuare un preciso schema narrativo che dà loro forma, anche se il protagonista è sempre diverso (nell’intervista fa degli esempi: “la scalata fino alla vetta”, “il tradimento”, “il declino”, “la salvezza”, “il ritorno” e “l’eredità”). Quindi sostanzialmente Hallais ha assemblato musica scientemente kitsch per fare satira su di un “genere” (credo soprattutto televisivo) kitsch, come se qualcuno in Italia prendesse le immagini de “I Cesaroni” o “Forum” e facesse una colonna sonora “più realista del re”, ma in qualche modo deforme/deformante… Almeno questa è la mia interpretazione, anche dopo aver visto le clip create appositamente da un regista per suggerire cosa ciascuna delle undici tracce del disco stia cercando di commentare col suono, ed ecco dunque panoramiche sui trofei, su foto di campioni dello sport… il tutto girato come se fosse un documentario per la tv, ovviamente. L’impressione è appunto quella di essere di fronte a una specie di parodia e a una sorta di critica culturale, come quando Lynch (paragone-jolly per tutto ciò che è strano, lo so) all’epoca di “Twin Peaks” prendeva in giro le soap opera americane, anche attraverso le musiche.

Se uno ignora la cornice concettuale e visiva nella quale An American Hero è sistemato, la faccenda si complica. È un po’ come quando in visita a una galleria d’arte contemporanea si sente il bisogno di buone didascalie.