PHILIP CORNER, EXTREEMIZMS Early & Late
Perdiamo tanto tempo, ci affanniamo per cose inutili, ci dibattiamo come pesci che non si rassegnano a stare nella rete, ci azzuffiamo, facciamo gara a chi alza la voce di più, pigoliamo incessantemente io, io, io, senza accorgerci della vanità di tutto questo, dello spreco di energie, del non capire. Definiamo, rivendichiamo, sospettiamo, supponiamo, scriviamo, suoniamo, parliamo, parliamo sempre troppo. Perché in realtà dal silenzio veniamo e lì torneremo. La lunga traccia d’apertura, per violino (Silvia Tarozzi) e violoncello (Deborah Walker, le abbiamo viste questo autunno in duo al festival Aperto) fa fiorire dentro queste idee, ci illude che esista davvero una pace intatta e ci porta altrove per un lungo piano sequenza, regalandoci una voglia di sparire nel suono, di tacere per secoli. Un limpido tono sostenuto, pura beatitudine che apre i chakra che ignoriamo, un capitolo di infinito. Che dal primo suono veniamo e lì un giorno torneremo, quando tutto il frastuono intorno sarà finalmente solo un ricordo. Doveva per forza finire così? Dovevamo ritrovarci perfettamente spaesati, ammutoliti, incapaci di riconoscere l’alfabeto con cui sono scritte le indicazioni per tornare a casa? Già, ma dov’è casa? La casa è dove sapranno chi sei, che lingua parli, dove ti batte il cuore. La casa è dove un giorno smetterà di battere, quel cuore. Non è musica che si presti ad essere spiegata, quella contenuta in questo disco. Del resto, scrive l’autore, nel bel libretto del cd, denso di parole e graphic scores, “Il significato della vita è un succo di pompelmo ghiacciato nel pieno della notte”. I primi undici minuti del pezzo “2 Extreemizms” rimettono al mondo, letteralmente. Poi, lampo di genio, imprevedibile e inaspettato, il panorama esplode in un magma: bave, lapilli, schermaglie, bagliori, lampi, tuoni, saette, voci di animali in fuga,schianti universali, grida, il suono primordiale che come terra si ribella e si increspa, feroce come e più di certo noise cosiddetto d’avanguardia, ma alla fine ci lascia salvi, come testimonia il respiro finale. Basterebbe già solo questa composizione per gridare al miracolo (c’è un universo intero, in quegli ottomilaquattrocentosettantasette secondi), ma siamo solo all’inizio. Poi sono le movenze circospette, l’attesa scura di “Two-Part Monologue No.1”, per violino e violoncello sobri e sorvegliatissimi, ad aggiungere mistero al mistero. Pare inizialmente meno interessante il monologo n.2 (Erik Satie?), finché poi non giungono dal nulla interferenze di archi a stranire il mood e a destare l’attenzione: come scriveva Hikmet, il miracolo del rinnovamento è il non ripetersi del ripetersi. Il terzo monologo è scabro, asciutto, totalmente anti-retorico: speleologia per archi, musica psicologica, l’antiaccademia nata in accademia, un’andatura prosaica, asciutta, sempre in sottrazione. È finita l’epoca delle grande sinfonie, dice il poeta norvegese Ralf Jacobsen. “FINALE” (un brano del 1958) suggerisce un inizio che non arriva, lasciandoci stupiti di fronte a un monolite di cui non si capisce l’origine. Ci sono scosse telluriche invece nei (som)movimenti intitolati “wHoly Trinitye”, quattro composizioni del 2016 (in una compare anche l’arpa di Rhodri Davies), l’ultima delle quali in due minuti mette in scena una discesa nell’Ade o una salita verso cieli rarefattissimi. Comunque mondi non visti, sui quali questa musica magnetica, lieve e densissima spalanca porte che non tutti avranno il coraggio di aprire. Ma che vaso di Pandora per chi non avrà timore! D’altro canto (ancora dal libretto):
“Extremes are extreme, extremely.
specially when you-are Omnisophist Omnitheist Omniphonist (I am)”