PHARMAKON, Contact

Il dualismo fra corpo e anima è da sempre al centro della musica di Margaret Chardiet, alias Pharmakon. L’esordio Abandon, ispirato dalla fine di una relazione sentimentale, sembrava focalizzarsi sui patimenti psicologici, il seguito, Bestial Burden, realizzato dopo un intervento chirurgico piuttosto serio, era legato invece a quelli della carne: dischi dolorosi e dolenti, dunque. Contact, alla fine, è di certo il lavoro più “facile” di Chardiet, il più accessibile all’interno di un discorso musicale comunque poco rassicurante e intransigente, ma ruota ancora attorno a questo dualismo ed a che fare più o meno con gli stati di trascendenza, perché sembra voler fissare su di un supporto la necessità imprescindibile della noiser newyorkese di mantenere una relazione di tipo fisico – contact, appunto – coi suoi ascoltatori, in quella che lei stessa definisce una condizione di perdita di coscienza (chi ha visto le sue performance live sa che comportano l’azzeramento delle distanze tra artista e pubblico).

I brani sono stati strutturati proprio seguendo i quattro stadi della trance: preparazione, inizio, climax e finale. L’elemento vocale, la cui centralità vacilla rispetto al passato, assume sfumature e modulazioni in parte inedite e, pur cercando di essere estremo, non raggiunge gli eccessi di Bestial Burden (per intenderci, qui niente tosse convulsa e niente scatarrate). Col suo predecessore, però, Contact condivide la vitalità disperata: anima e corpo dissociati ma uniti in un gesto sonoro estremo nella ricerca di altri corpi, di altre anime, di un’empatia necessaria, sollievo almeno temporaneo dalle afflizioni terrene. L’album vive di un fluire ciclico di onde recrudescenti, cariche di sofferenza, un passaggio continuo di sciami rumorosi che esplicitano una visione per così dire rituale, terapeutica, della musica di Pharmakon, in qualche modo vicina a quella di certe culture tradizionali.