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PETROGLIFI SOLUBILI, Tante Case Vuote

Qualche settimana fa mi arriva nella cassetta della posta questo cdr – limitato a 35 copie, c’è scritto sul retro della copertina artigianale – a nome Petroglifi Solubili: dietro c’è la mano di Loris Zecchin, che io conoscevo/alcuni di voi conosceranno come uomo solo al comando di Solar Ipse, una delle fanzine più belle su cui vi capiterà di mettere le mani, dotatissimo nel ballare di architettura ovverosia quello scrivere di musica che molti vorrebbero oggi essere esercizio inutile e che proprio per questo sarebbe invece arte da coltivare e preservare con dedizione, come la calzoleria o il kintsugi, quella cosa che fanno i giapponesi con i cocci rotti. Io ultimamente me la prendo molto comoda nello scrivere e così scelgo di dedicarmi a Tante Case Vuote nella settimana di Sanremo, anzi decido di farlo precisamente alternando la visione della kermesse – perversione a cui mi dedico da anni con soddisfazione – all’ascolto del cdr, cercando di bilanciare le stucchevolezze della canzone popolare italiana (o meglio, della maniera in cui si è scelto di rappresentarla istituzionalmente) con le asprezze di un modo di fare musica che, per quanto ostico, non riesco a definire respingente, perché secondo me anche dietro proposte come queste non c’è mai artificiosa sgradevolezza, quanto la rappresentazione di quello che abbiamo dentro, o di quello che ci circonda, attraverso un codice, un posto che solo le anime affini riusciranno a raggiungere, frutto di quell’urgenza espressiva che finisce per eludere la tecnica. Analogamente penso anche che un discorso del genere possa essere fatto per l’altra faccia della luna -s ul palco dell’Ariston sono saliti adesso i Coma_Cose con un brano dal titolo “Cuoricini” – per cui anche dietro la musica fabbricata per l’ascolto di massa si nasconda, sotto strati e strati di lacca, l’intento segreto di arrivare in luoghi poco battuti. E allora sinapsi ben allacciate, qualche secondo per tarare le orecchie e si parte: Tante Case Vuote è il decimo capitolo della discografia di Loris – così apprendo dall’inchiostro viola su foglio a quadretti che costituisce la press release dell’album – ed è frutto di campionatori, synth, microfoni a contatto e di una manipolazione del suono attraverso pedali per chitarra, qualcosa che si avvicina a Merzbow (era pre-laptop, aggiunge Loris: giusto) e a Maurizio Bianchi, direi io, non fosse altro per l’estetica diy e il muoversi tra le pieghe della scena, nella scia di tutto quel noise che non indugia a dolcezze, come cantava il “vate”. Il primo dei tre brani è uno scolpire il suono da cui vengono via schegge da tutte le parti – sul palco nel frattempo è salito Cristicchi, uno che, lui sì, andrebbe consegnato al tribunale de L’Aia – il secondo pezzo è un compressore a 10k atmosfere sparato contro la decenza – in tv adesso c’è Marcella Bella, chissà il fratello… – il terzo è il lungo tentativo di portare a galla una qualche forma di musicalità all’interno del marasma sonoro, ma forse è la vista di Giorgia e del suo rococò vocale che mi trae in inganno. Se Sanremo anche basta, se vi sentite pronti a mettere a dura prova i vostri padiglioni auricolari, se siete disposti a questo tipo di connessioni potete scrivere a Loris Zecchin (loriszecchin@proton.me) e assicurarvi una delle pochissime copie del disco messe in circolazione.